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Arwen e l’inversione
ipostatica del destino

3 minuti di lettura

di Lorenzo Pampanini

Quando si legge Il Signore degli Anelli, si ha l’impressione di essere catapultati in un universo assolutamente immaginifico. Ciò che solitamente si trascura è l’elemento destinale nei pensieri dei personaggi, in virtù del quale si determina la trama degli eventi.

È noto che tra le creature fantastiche delle mitologia nordica, a cui J. R. R. Tolkien si ispira, gli elfi si contraddistinguono dalle altre per i poteri magici, che li rendono più sapienti e li elevano ad un rango privilegiato negli universi mitologici. Uno di questi attributi particolari è la preveggenza ed è proprio su questo punto che l’autenticità del destino vacilla manifestandosi come un’inversione dello sviluppo narrativo.

Si ricordi il momento in cui Arwen, la figlia del Re degli elfi, durante il viaggio verso le Terre Immortali, vede proiettato dinnanzi a sé il futuro, che avrebbe voluto vivere. Questa scena è piuttosto surreale; la sua premonizione, infatti, è piuttosto un pensiero, che prende la forma di un desiderio estrovertito nella sua vita della mente e che la rapisce, in un momento di introspezione assoluta. Da questa visione scaturisce una reazione radicale: Arwen torna sui suoi passi, sceglie arbitrariamente un destino alternativo a quello programmato, a cui stava andando incontro.

Su questo passaggio occorre soffermare l’attenzione: tra un avvenire deciso a tavolino e uno basato sulla volontà individuale, la scelta è immediata. Arwen sceglie il futuro più proprio e non quello più sicuro. L’intento è di rendere la sua vita conforme alla sua volontà, indipendentemente dagli agenti esterni, che inducono alla cautela. L’ipostasi destinale è del tutto basata sulla soggettività autonoma del personaggio. Così la determinazione psicologica degli eventi futuri trova il suo coronamento nella decisione attuale delle velleità individuali. L’aspetto fondativo della libera decisione si situa nel libero arbitrio: la consapevolezza lascia spazio alla decisione effettiva, mediante la quale il personaggio eleva se stesso a personalità.

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Il filosofo Friedrich Schelling nella redazione del 1811 dell’incompiuto Le Età del Mondo, postula l’esistenza di due volontà contrapposte nell’animo umano, la prima è la volontà che nulla desidera fuori di sé e che aspira alla unità assoluta con sé, l’altra è la volontà che mira a realizzare un qualcosa di determinato. Nel caso del nostro personaggio le due volontà si interscambiano: il volere nulla in sé diviene un volere qualcosa fuori di sé. Il momento della decisione è radicalizzato nella misura in cui l’avvenire si proietta dall’interno all’esterno.

Schelling scrive: «[…] Noi riconosciamo dunque due volontà ugualmente eterne, che secondo la loro natura sono diverse, anzi contrapposte, mentre secondo l’esistenza costituiscono un’unica essenza. […]».

Nel caso di Arwen l’andamento destinale è ritmato dalla volontà che vuole qualcosa, la quale, però retroattivamente è sospinta dal desiderio di unità con il proprio destino. Ciò che è libero è anche soggetto a una decisione che si concretizza con un’azione esteriore. L’interiorità è, per questa via, posizionata nella seconda volontà e quindi si esteriorizza, producendo l’effetto decisivo della realizzazione di un futuro determinato.

Rimane da comprendere come questo destino sia più proprio di un avvenire ragionato retroattivamente. Ciò che scaturisce dalla riflessione a priori è sintomo di una lontananza dalla realtà effettiva perché, anzitutto, non tiene conto della libertà decisionale, la quale in virtù della forza temporale, è momentanea. Arwen, così come l’uomo in generale, è dotata della forza libera di immaginare un proprio destino alternativo e radicalmente voluto.

Nella Critica della Facoltà di Giudizio Immanuel Kant parla di ciò che è universale, dandogli il carattere di un libero gioco tra immaginazione e intelletto, in Arwen, il ruolo giocato dalla immaginazione anticipa dando forza alla prestazione intellettuale: quando il padre le propone di abbandonare la Terra di Mezzo per sempre e di tornare nelle Terre dei suoi avi, lei sceglie, intellettivamente, di seguire il consiglio e così mette temporaneamente a tacere la propria immaginazione, ed anche la propria libertà decisionale. Tuttavia, nel momento di intraprendere un cammino senza ritorno, i ruoli  delle due facoltà tornano a invertirsi: l’immaginare torna a essere la voce principale della scelta, mentre l’intelletto rimane solo la funzione di intraprendere una strada piuttosto che l’altra.

Il destino più proprio è quindi quello che immaginiamo per noi e la volontà che desidera qualcosa fuori di sé è il frutto di esso.

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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