«Il cibo è un’arte?»: una domanda che indubbiamente ciascuno si è trovato davanti in diverse occasioni e dibattiti. La questione è veramente ampia e forse non si arriverà mai ad una risposta univoca e concorde: la relazione arte e cibo risulta però davvero ricca di innumerevoli spunti, anche senza addentrarsi in discorsi di matrice etica, ma domandandosi piuttosto «il cibo è nell’arte?». E se sì, come?
Il cibo nell’arte come attributo iconografico
Prima di tutto, il cibo è stato usato per secoli nelle raffigurazioni sacre come attributo iconografico.
L’uva in mano al Cristo, ad esempio, rappresenta il suo sangue e il successivo sacrificio. L’arancia e la mela, invece, sono simbolo della redenzione e della salvezza che segue la Passione.
Due sante che vengono ricorrentemente raffigurate con cibo sono Santa Elisabetta d’Ungheria e Santa Dorotea: la prima con un cesto di pane e rose tra le mani, la seconda con mele e rose.
Il cibo è un importante elemento distintivo non solo nella pittura sacra ma anche nelle raffigurazioni classiche: l’uva e il vino per il dio del vino Bacco e il frumento per la dea del grano Cerere.
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La raffigurazione dei pasti nella storia dell’arte
Il pasto più famoso dell’intera storia dell’arte è sicuramente l’ultima cena: sebbene al centro dell’episodio sacro vi sia il tradimento di Giuda, comunque nelle diverse rappresentazioni sono sempre presenti pane e vino, citati nelle sacre scritture.
Dall’altra parte, il pasto consumato dal protagonista di un dipinto può essere portatore di diversi significati. Ne sono un esempio Mangiafagioli di Annibale Carracci e I mangiatori di patate di Vincent van Gogh.
Databile tra il 1584 e il 1585, la tela di Carracci entra in netto contrasto con la ricchezza e lo sfarzo della famiglia Colonna, che acquistò l’opera dai Pallavicino per inserirla nella propria collezione, dove ancora oggi si trova.
Il protagonista di umili origini sta per assaporare un piatto di fagioli: sul tavolo davanti a lui sono presenti anche una brocca e un calice di vino, del pane, le posate e alcuni cipollotti. Vestito con una camicia bianca e un gilet, l’uomo alza lo sguardo come colto di sorpresa dalla presenza dello spettatore.
Carracci ci restituisce la realtà in un modo che fino ad allora era stato impensabile: anticipando la pittura di genere che si svilupperà nel corso del Seicento, l’artista raffigura un uomo umile, forse un contadino, che consuma in solitaria un pasto. È proprio la rappresentazione del cibo, ancor più dell’aspetto del protagonista, a conferire specificità e unicità a quest’olio su tela.
Chi sembra recuperare la lezione del maestro bolognese tre secoli dopo è Vincent van Gogh.
I mangiatori di patate è un olio su tela del 1885: in un interno povero ma decoroso, illuminato da una luce fioca proveniente da una lampada ad olio appesa al soffitto, l’artista raffigura una famiglia contadina a cena che consuma patate e caffè d’orzo. Van Gogh ci mostra la scena come se lui stesso fosse presente: portando alle estreme conseguenze l’idea di Annibale Carracci, dipinge la famiglia rinunciando ad ogni tipo di idealizzazione e focalizzandosi sulla resa di dettagli quasi grotteschi del corpo, come ad esempio le mani nodose.
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Cibo e arte: le Teste composte di Giuseppe Arcimboldo
Il cibo è stato anche utilizzato nei dipinti in maniera totalmente inaspettata.
Nato nel 1527 a Milano, Giuseppe Arcimboldo è sicuramente una delle figure più stravaganti ed enigmatiche della propria epoca. La sua notorietà deriva dalla realizzazione di quelle che vengono definite come Teste composte: ritratti grotteschi e caricaturali che hanno come protagonisti ortaggi, frutta, pesci, uccelli, alberi…
La lettura di questi dipinti risulta però assai più difficoltosa di quello che sembrerebbe ad un primo, fugace sguardo: non si tratta, infatti, solamente di un’opera dal fine ludico o canzonatorio, quanto piuttosto di una riflessione sul mistero che avvolge la Natura intera.
La natura morta
Quello della natura morta è sicuramente uno dei generi pittorici maggiormente conosciuti. La sua caratteristica principale è quella di raffigurare oggetti inanimati, tra cui anche il cibo.
Sebbene si siano evidenziati dei precedenti nella pittura classica e medievale, la natura morta assume il proprio statuto di genere autonomo solo nel XVII secolo, nonostante sia stata considerata a lungo come un genere meno nobile rispetto alle composizioni con protagonisti animati.
Spesso la raffigurazione di oggetti inanimati è accompagnata da un significato moraleggiante: la tela diventa una sorta di monito sul passare irrefrenabile del tempo.
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