Ludovico Ariosto è un poeta che lavora per immagini in movimento. Questa la tesi di fondo della mostra Orlando Furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi, organizzata per l’eccezionale anniversario dalla stampa nella città di Ferrara della prima edizione del celebre poema cavalleresco (1516, seguita dalle revisioni del 1521 e del 1532) e ospitata dal 24 settembre all’8 gennaio nella sede di Palazzo Diamanti.
Oltre ai classici della tradizione letteraria (individuati già nel 1876 dal filologo Pio Rajna), quali sono le fonti di Ariosto? Da che precedenti trae ispirazione la fervida mente di questo geniale inventore, sempre a cavallo tra reale e possibile?
È questo che la rassegna, curata (in una sinergia tra storia dell’arte e italianismo) da Guido Beltramini e Adolfo Tura, intende mettere in evidenza, sottolineando la relazione tra i versi ariosteschi e il mondo (guardato comunque con umanistico distacco) delle “arti meccaniche”, estremamente floride nell’ambiente della corte estense.
Lavoro sicuramente innovativo e improbo, basato non tanto sull’evidenza dei rapporti e sull’autorità delle tesi, quanto sulla probabilità e sullo studio di oggetti rimasti per tanti anni nell’ombra, parte di un universo multiforme, fatto di tornei cavallereschi e cortesie, di prodezza e follia.
La precisazione dei curatori è immediata: mentre una riflessione più strettamente linguistica o letteraria sarebbe meglio ospitata da un saggio, la finalità divulgativa e la tematica trattata (quella delle fonti minori e delle testimonianze materiali) meglio si coniugano con una rassegna, in cui il legame tra gli oggetti in mostra non è esplicato tanto dalle didascalie, quanto dai parallelismi e dalle antitesi su cui si fonda il loro dialogo espositivo. Non serve l’argomentazione. È l’accostamento a parlare da sé, come nel caso del coraggioso accostamento tra Ariosto e Raffaello, che, secondo Tusa, seppur nei differenti ambiti, acquisiscono, specie in termini di linguaggio, un ruolo analogo.
Gli oggetti escono dai versi e si mostrano nell’arte. Emblematico in tal senso lo spazio dedicato a Roncisvalle, in cui la lunga tradizione letteraria è resa ancora più viva dalla rappresentazione su arazzo fiammingo della scena, e ribadita ancora una volta dalla presenza fisica, tangibile, di uno dei tanti olifanti attribuiti, sebbene posteriori, ad Orlando, proveniente da Tolosa. Tra i numerosi esempi in tal senso, una storia simile quella degli elmi da torneo, raffigurati nelle miniature dei codici medievali (letti e gustosamente sfogliati da Ariosto) coi loro fastosi cimieri, e rappresentanti nella sede espositiva da un raro esemplare, segnato dal combattimento e conservatosi come parte di un corredo funebre.
Tutta una sezione è poi dedicata (a voler toccare anche solo qualcuno dei temi principali) alla diatriba tra letteratura e pittura nella rappresentazione della realtà e, in questo caso, del combattimento, in cui Leonardo (di cui sono esposti dei bozzetti) assegna il primato alla seconda. Diatriba che si risolve, almeno parzialmente, nella possibilità di accostare alcune sezioni narrative a particolari tratti formali nella raffigurazione pittorica, e specie (si vedano i personaggi antitetici di Angelica ed Olimpia) nella rappresentazione della figura femminile (Botticelli e Tiziano in primis, con la contrapposizione tra una bellezza più geometrica, come quella della Venere di Botticelli, e una più sensuale, come quella del Baccanale degli Andri, rientrato in Italia per l’occasione). Ipotesi ulteriore, sostenuta da critici come Marco Collareta e Vincenzo Farinella, che per alcuni episodi e alcune tele ci sia stata una reciproca influenza, se non un’esplicita consulenza. Tra gli esempi più celebri, l’ispirazione a Minerva che caccia i vizi dal giardino delle virtù di Andrea Mantegna (commissionata da Isabella d’Este) per i versi che descrivono la genia mostruosa che circonda la città di Alcina nel VI canto. Nello stesso quadro, un albero antropomorfo avvolto in nastri con iscrizioni dialoga con una viola che imita su un fronte un busto di donna, e sull’altro un arcigno sguardo maschile.
Di raro valore filologico, poi, il testo musicato dal Tromboncino del lamento di Orlando («Queste non sono più lacrime…»), le cui parole rivelano una precedente edizione della celebre e struggente ottava, circolata in forma orale prima di quella definitiva, un esemplare unico della prima edizione dell’Orlando Furioso, manoscritti autografi dell’edizione del 1532 e, infine, la tanto discussa lettera in cui Machiavelli, oltre ad esprimere il suo apprezzamento per l’Ariosto, si lamenta di non esservi stato citato assieme a tanti altri letterati suoi contemporanei, o, a volerlo dire con le sue parole, di «essere stato lasciato indietro come un cane», dicitura all’attenzione del grande pubblico per essere stata letta erroneamente, e anche dagli studiosi più illustri, nella forma (citando Tura) «lasciato indietro come un cazzo».
A concludere la mostra e a suffragare la tesi del Segretario fiorentino è una copia d’epoca del Don Chisciotte, nel cui sesto capitolo, Cervantes fa affermare al Curato in visita alla biblioteca dello sfortunato avventuriero che, tra mille e mille poemi cavallereschi pieni di fandonie, se ci fosse l’Orlando Furioso, quello e solo quello, pur sempre a patto di essere scritto proprio in quella lingua e non in una qualunque altra (dove per lingua non s’intende solo l’idioma, ma un sistema più vasto di scelte stilistiche), sarebbe degno di essere “posto sul capo” come modello e capolavoro.
di Luca Bonazzi