1932. Da quasi dieci anni Mussolini è al potere in Italia. Di lì a qualche anno in Spagna scoppierà la guerra civil e, successivamente, Francisco Franco diventerà per tutti el caudillo. In Germania, Adolf Hitler sarebbe diventato cancelliere l’anno successivo. L’Europa sta vivendo un drammatico momento di transizione e le conseguenze le conosciamo perfettamente. Proprio in quell’anno, nel 1932, l’editore francese Robert Denöel pubblica un romanzo destinato a entrare di prepotenza all’interno della letteratura europea e mondiale del ‘900. In seguito a innumerevoli insonnie notturne, Louis-Ferdinand Céline appunta, con uno stile rivoluzionario iperbolico, gergale, e con un uso esasperato dell’argot, il suo interminabile Viaggio al termine della notte.
Comparsa sulla scena
1999. Anch’essa è una epoca di transizione, seppur in formato minore, o perlomeno in formato digitale, anche se, a onore del vero, il millennium bug alle porte non spaventa come la marcia delle SS hitleriane. Siamo a Bari, periferia calcistica italiana, stadio San Nicola (grazie Renzo Piano, grazie), in prossimità del Natale. Si sta giocando, in un clima inglese piuttosto che meridionale, la sfida fra la squadra di casa e l’Inter. Il punteggio è di 1-1 quando mancano pochi minuti alla fine delle ostilità. Il futuro campione del mondo Simone Perrotta si improvvisa regista e con un lancio millimetrico serve un diciassettenne brufoloso, idolo di casa. Il ragazzo è defilato a quaranta metri dalla porta, controlla il pallone con il tacco, se lo porta avanti, con un movimento converge verso il centro lasciando sul posto Panucci e Blanc (altro campione del mondo) e scarica il pallone in rete. Boom. Antonio Cassano si presente all’Italia a modo suo, con un lampo di genio e, ovviamente, un cartellino giallo per aver esultato troppo sotto la curva di casa. Lui stesso racconta che il 18 dicembre 1999 è stata la sua seconda data di nascita perché nulla per lui sarebbe più stato come prima.
La gioventù
Il Viaggio céliniano è scritto in prima persona ed è facile notare una quasi esatta convergenza fra il pensiero e le azioni di Ferdinand Bardamu, protagonista del romanzo e Louis-Ferdinand Céline, l’autore. Il primo peregrinare di Ferdinand avviene nel quadriennio 1914-18 in concomitanza con la prima guerra mondiale.
Céline partecipò alla guerra da volontario, poco più di diciottenne. Rimase ferito in seguito a una missione: egli stesso ha sempre raccontato, da buon millantatore, l’inverosimile storia di un proiettile intrufolatosi nel suo cranio e mai definitivamente uscito fuori. Ciò gli ha sempre provocato, secondo lui, problematiche celebrali da qui non è mai stato capace di uscirne. Verrà riformato pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto, a inizio del 1915. Nel Viaggio, Ferdinand appunta una frase destinata a diventare una icona del pensiero dell’autore: «Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia»
L’esperienza della trincea sconvolge la vita del giovane Ferdinand, eppure fino ad allora non è che avesse avuto una esistenza alquanto agevole. Crescere a Bari vecchia quasi un secolo dopo, non è molto diverso dal farsi le ossa nel passage Choiseul sul finire dell’ottocento (a questo proposito è ancora maggiormente esemplificativo il secondo romanzo céliniano, Morte a credito). Antonio Cassano sguscia nei vicoli di Bari vecchia, in mezzo alla miseria, alla piccola delinquenza e a un distanza abissale da un mondo che a grande velocità si sta proiettando verso il 2000. Il ragazzo è figlio unico, non ha mai avuto un padre e i pochi affetti che ha si contano sulle dita della mano: la madre Giovanna, i cugini, e gli amici della strada, gli unici che non si burlano di lui per quel fisico tendente alla lievitazione e a un viso divorato dall’acne giovanile. Un sentimento di solitudine e una idea non propriamente bislacca di sentirsi in perenne lotta contro il resto del mondo, accomuna la giovinezze da Ferdinand e di Antonio. Le ragazze risultano solamente utili strumenti per alimentare fantasie succinte, impossibili da riprodurre concretamente. Poi, di colpo, per Antonio Cassano, avviene quel gol all’Inter e finalmente intravede la possibilità di poter toccare con mano una vita futura, fuori dalla ristrettezza economica, dove poter realmente sentirsi realizzato.
In lotta contro il mondo
Il primo viaggio (in senso letterale) Ferdinand lo compie all’interno dell’Africa coloniale francese, distante chilometri dalla costa, dalla civiltà, dalla modernità. L’obiettivo di questa sofferta e tremenda traversata è quella di cercare fortuna in un altro continente, il quale, dall’Europa tartassata al conflitto bellico, appare come un miraggio di felicità. La realtà, ovviamente, è ben diversa. Malattie, povertà, distruzione, soprusi dei coloni francesi nei confronti delle popolazioni locali: l’Africa céliniana è una delle tante facce del male, priva di qualsiasi speranza di cambiamento e di redenzione. Qui Ferdinand, ancora più che in guerra, si accorge dell’importanza di dover contare unicamente su sé stessi per sopravvivere: «Ogni possibile viltà diventa una meravigliosa speranza se uno sa riconoscerla. Ecco quel che penso. Non bisogna mai fare i difficili sul modo di evitarsi uno sbudellamento, né perdere tempo a cercare le ragioni della persecuzione di cui sei oggetto. Sfuggirvi è quel che basta al saggio».
In ordine cronologico, i primi due viaggi della carriera di Antonio Cassano rappresentano due mondi antitetici rispetto alla realtà africana di Ferdinand. Il giovane Antonio, infatti, lascia prima Bari vecchia per spostarsi a Roma e, successivamente, in un giorno qualunque di gennaio scappa dalla capitale destinazione Madrid, con al seguito una valigia, un taglio di capelli alquanto imbarazzante e un giubbotto che dalle parti del Bernabeu ancora ricordano per la totale mancanza di sobrietà. Sono gli anni in cui si manifestano le leggendarie cassanate, bandierine rotte, litigate da antologia con Fabio Capello, un gesto delle corna in mondovisione, abbuffate di cozze, modelle di ogni paese, espulsioni, squalifiche. A differenza di Ferdinand Bardamu, Antonio Cassano aveva tutto: talento, soldi, successo, fama. Eppure continua a provare lo stesso sentimento, una profonda quanto inspiegabile convinzione di avere il mondo totalmente contro di lui. Ha sempre avuto bisogno d’amore Antonio, perché forse ne ha raccolto poco in tutta la sua vita (sempre secondo la sua prospettiva). Divide le persone in due gruppi: i pochi amici fidati e tutti gli altri, i quali attendono solamente l’ora giusta per pugnalarlo alla schiena. D’altronde, come scrive Céline, «Ci vuole sempre un po’ di tempo perché la gente arrivi a conoscerti, si dia da fare e trovi il sistema di fregarti». Questa provoca una ricerca della solitudine, una tendenza all’isolamento che si trasforma in un cortocircuito vizioso.
La quiete e la tempesta
L’America, apparentemente, rappresenta per Ferdinand Bardamu uno dei pochi momenti di quiete. Lavora in fabbrica, spende i pochi soldi in bordelli o altre bettole simili, si innamora di Molly, probabilmente la celebre ballerina Elizabeth Craig, a cui Céline dedica il romanzo. C’è un passaggio chiave nel libro, quando dopo pochi mesi americani, Ferdinand prende la decisione di ritornare in Francia e riprendere gli studi di medicina. «Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America».
Oltre oceano Ferdinand ha trovato l’amore, proprio come Cassano nella Genova blucerchiata, l’amore di una donna, certo, ma anche quello dei tifosi, disposti a perdonargli tutti gli errori che un eterno Peter Pan è solito commettere. Chi scrive ha sempre cercato una spiegazione razionale alla scelta di Ferdinand di lasciare Molly e l’America, salvo poi pentirsi anche soltanto di aver tentato di individuare una soluzione logica. Chi scrive ha anche bramato una possibile motivazione per cui Antonio Cassano non si sia fermato a Genova a deliziare il pubblico blucerchiato per tutta la sua esistenza calcistica. La verità è che risposte razionali non ci sono.
È la malattia di chi non ha mai avuto un posto nel mondo, chi vive nella convinzione che «insomma, è il breve intervallo in cui in un qualunque posto nuovo non ti conoscono ancora, che è la cosa più piacevole. Dopo è la stessa cattiveria che ricomincia». Di chi vede la fuga come unica soluzione allo squallore quotidiano, che esso sia reale o solo frutto della propria fantasia poco importa. D’altronde è tipicamente céliniano mischiare la realtà con l’immaginazione, il percepito con il sognato. Quanto, concretamente, ad Antonio Cassano è mancato l’affetto delle persone? Davvero il mondo gli ha da sempre e per sempre dichiarato guerra? Era necessario fuggire tutte le volte, scappare, ricominciare da capo? Alla ricerca di cosa, infine?
Oggi gli scarpini stanno per essere appesi al chiodo, poiché i chili e i rimpianti di Antonio Cassano sono troppi. Oggi, salvo qualche clamoroso colpo di scena, il suo Viaggio al termine della notte può dirsi concluso. Noi possiamo soltanto dire che forse, ma forse, ne è valsa la pena comunque.