C’è sempre posto per nuove scoperte nella letteratura italiana odierna. Il romanzo di Roberto Venturini, L’anno che a Roma fu due volte Natale (SEM, 2021, nella dozzina semifinalista del Premio Strega 2021) è, a tutti gli effetti, una deviazione dal panorama attuale, il tentativo arguto – e fuori-misura – di uscire dall’alveo della funzione referenziale, della zona grigia dell’ordine, dove ogni tassello è limato, pensato per combaciare con altre tessere. Qui nulla è a posto, ad eccezione del linguaggio scabro, fastidioso, che fa di quest’opera pressoché un unicuum, capace di muoversi ai margini del tempo – dove è il governo della materia a segnare la propria cifra.
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Non che il tema risulti frusto, giacché l’opera di Venturini è un’epopea sghemba, la rêverie di un’Italia smarrita, a tratti magica, con personaggi ridotti a relitti, memorie vive di anni ruggenti. C’è un senso di smarrimento in queste pagine buffe, la sensazione di assistere a uno show azzoppato, mandato in onda fuori tempo. E c’è tenerezza, un impasto di ironia e scherno nei confronti di questa umanità indolente, celebrata attraverso un socioletto ruvido, carnale, tramato di un dialetto scientemente caricato.
«L’anno che a Roma fu due volte Natale»: ai margini dell’universo
Siamo ai margini dell’universo, in un’area dall’identità liquida – dove l’inizio e la fine coincidono perché alla luce seguono le ombre, la polvere torna polvere, il mare inghiotte i vissuti. Il teatro della scena è marcato, riconoscibile, orgogliosamente altro rispetto alle zone limitrofe eppure fragile, disseccato. Il Villaggio Tognazzi di Venturini somiglia a una zattera marcia, ognuno si lascia vivere come può: truffando, mentendo, trascinando il passato. La nostalgia, fuoco privilegiato dell’opera, funziona come appeal alla partecipazione emotiva, è un album di famiglia e un motore immaginifico, che presuppone la fine della storia, del tempo cronologicamente ordinato – spietato. In quest’opera buffa, eppure a suo modo elegiaca, prende forma un quotidiano aneddotico, in parte costruito sui linguaggi audiovisivi, dove il catalogo di abitudini, mode, canzoni di un altro tempo esorcizza il senso di un’amara caducità.
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Risuona, tra le pagine, un impegno sfiancante, il confronto dei personaggi con il male di vivere, con ciò che resta del proprio mondo. Il jet-set di Cinecittà, in trasferta nella villa di Ugo Tognazzi, resiste sulle pareti dello storico bar Vanda, crocevia di sbandati urlanti, di prostitute con i denti guasti. Tutto, nel romanzo di Venturini, conserva un’aura di purezza, a volte pasoliniana a volte figlia di Caligari, stretta fra i baluardi e la “dismisura” del corpo. Il grottesco-caricaturale – certo postmoderno e poco espressionista, sebbene su questo “brutto” si potrebbe argomentare – nasconde un gusto per lo scavo, per il rigetto della norma intesa come convenzione, conformità al già detto.
Non solo i personaggi di Venturini sono dis-adattati, ma il loro stesso codice risulta obliquo, estraneo al discorso comune e dunque proprio, quasi “sacro”. Su tale piano l’autore dà il meglio di sé orchestrando situazioni e registri in parte gaddiani, come la scena del pollo o le frequenti accumulazioni (non solo linguistiche, si veda il caso di Alfreda). Nessuna nota d’astio turba lo sguardo di Venturini, che spiega su questo mondo un velo bonario, intessuto di reminiscenze cinematografico-televisive come il miglior Scola o il duo Sandra e Raimondo, a loro volta spiriti “felliniani” o – meglio ancora – Fantasmi a Roma [1], costretti nello spazio dell’ex speculazione.
Questo sguardo prolungato e privo di giudizio – dalla parte degli ultimi, certo, ma non senza rispetto – capace di intuire verità inafferrabili, è forse la nota più pregevole del testo. Quella che si leva più acuta, insieme all’impazienza, al rifiuto di narrare di questo mondo, dove chi resta vive ai margini ed è un “dato” invisibile, come un corpo perduto e inghiottito dal mare.
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Note:
[1] Il riferimento è al film del 1961 diretto da Antonio Pietrangeli.
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