Gli anni Novanta, che in qualche modo potremmo anche definire “favolosi”, rappresentano per il mondo dell’arte un importante momento di passaggio, un punto di non ritorno che in qualche modo forgerà numerosi dei codici e dei linguaggi della nostra scena contemporanea. Lo sviluppo di nuove pratiche curatoriali, di canali comunicativi e l’attenta osservazione dei numerosi cambiamenti politici in atto attirano l’attenzione degli artisti emergenti su questioni sociali ed economiche prima ancora che estetiche. Questo interesse darà vita a personaggi che supereranno la classica concezione di artisti per diventare celebrità a tutto tondo, imprenditori di loro stessi, dissacratori del canone, sfidando i confini della morale e dell’opinione pubblica. Uomini-artisti che hanno reso al loro stessa vita una performance, una forma di denuncia delle ipocrisie della contemporaneità, distruggendo la patina di intoccabilità di cui l’arte si era forgiata per secoli.
Jeff Koons
Controverso, scandaloso, discusso, popolare fino all’impopolarità, l’artista americano Jeff Koons, classe 1955, ha fatto il suo ingresso trionfale nel mondo dell’arte negli anni Ottanta, a 35 anni.
La sua arte, diretta erede della Pop Art americana degli anni Sessanta, è un serbatoio inesauribile di citazioni e rifacimenti: «Mi vedo come un’interfaccia tra la tradizione figurativa europea e il minimalismo americano».
Partendo dalla premessa che l’artista contemporaneo non ha più nulla di nuovo da dire, Koons unisce l’oggetto comune e sfavillante della Pop Art a riflessioni filosofiche sulla contemporaneità, al futuro dell’arte, il tutto condito da uno smodato amore per il kitsch. La fascinazione per gli oggetti banali in Koons, a metà strada tra il Ready-made duchampiano e l’objet trouvé surrealista, rende protagonisti della sua arte conigli in acciaio, aspirapolveri in teche di plexiglass e gigantesche sculture di palloncini che strizzano l’occhio al mondo colorato e innocente dell’infanzia, divenendo vere e proprie icone della contemporaneità.
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