Ogni paese ha il proprio ambasciatore, un artista immortale capace di imprimersi nella memoria collettiva chiedendo di essere guardato, ascoltato mentre grida «io sono la storia, la gloria, le contraddizioni». La Francia ha Edith Piaf, la Germania Marlene Dietrich, l’Italia Anna Magnani. C’è una scena famosissima, di un film struggente e forte (Roma città aperta) come solo Roberto Rossellini sapeva fare, in cui una donna corre, mentre i tedeschi stanno portando via il marito su una camionetta zeppa di sudore e morte. È Pina, colei che come dice Ascanio Celestini «muore prima di toccare a terra, mentre sta volando, leggera ed elegante, spinta da una forza quasi inarrestabile, ad afferrare in volo la mano del suo uomo per trarlo via, unico e solo, da quella massa di derelitti». Pina è Anna Magnani, bella e fiera nel suo volto scavato, le occhiaie scure, i capelli corvini spettinati. Anna è l’Italia nei suoi vizi privati e pubbliche virtù, è passato che riaffiora per non essere dimenticato, è icona di un tempo vissuto che fa fatica, ancora, ad essere dimenticato.
Romana d’origine e d’elezione, è forse il suo animo capitolino a renderla perfetta rappresentante di un Paese nuovo, in via di ristrutturazione, profondamente lacerato ma più genuino e spontaneo. Lei, che Indro Montanelli ricorda ordinare da bere con accento trasteverino inconfondibilmente inserito in un code-switching dall’italiano all’inglese difficile da riprodurre. Lei, che Herbert List immortala al Circeo mentre con una mano si appoggia a un pilastro e con lo sguardo perso buca l’obiettivo, l’osservatore, il suo cuore. Come l’Italia distrutta dalla guerra e costretta a rialzare la testa perché, arrivati al fondo, la risalita è dura ma indispensabile, Anna Magnani ha tratto la forza da «una lacrima di troppo e una carezza in meno», superando un’infanzia amara per approdare, tenace, a una sofferta età adulta piena di soddisfazioni.
Della sua vita professionale si è detto e scritto tanto. La parola, si sa, è potente ma incantatrice, tende a confondersi, a perdersi, a impreziosirsi di sontuosi monili che risaltano la forma dimenticandosi, a volte, della sostanza. A raccontare di Anna ci hanno pensato i suoi film, rappresentazione generosa di un’artista spontanea e mai banale, interprete magnifica di Bellissima, Mamma Roma e La rosa tatuata. Con voce calda e roca ha incantato genuinamente una generazione, ha messo da parte il mito della bellezza standard per affermare quello, più vivo e mordace, della donna vera, imperfetta, fiera di quelle rughe che segnano il volto e che oggi, in una corsa ridicola contro il tempo, rappresentano la paura più grande delle donne cresciute nell’illusione dell’eterna giovinezza.
Nel lavoro come nella vita era appassionata e felina, «affondava gli artigli nel cuore» come ricorda Tennessee Williams, viveva con impeto e naturalezza ogni grande stato d’animo. Diventata diva a quarantasette anni, ha alzato con orgoglio la statuetta dell’Oscar vinto per The Rose Tattoo mentre alla prima mondiale all’Aston Theatre di New York le maschere erano Marilyn Monroe e Joan Crawford. Con naturalezza Anna si è stupita, ha aspettato i telegrammi di Luchino Visconti, Jean Renoir, Frank Capra, Burt Lancaster e poi ha sorriso perché, in fondo, se l’aspettava. Era nata attrice, e lo aveva sempre saputo: «Ho capito che ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno».
In amore, però, era fragile e tormentata. Come noi tutti, del resto, ancora una volta condannati a piangere per un amore perduto, sognato. «Ho trovato sempre uomini, come definirli? carucci. Dio: si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma sono lacrime di mezza lira» amava ripetere, e infatti nessuno dei suoi amanti riuscì mai a risanare quella carezza in meno di cui Nannarella aveva bisogno. Non ci riuscì Goffredo Alessandrini, il regista che sposò prima della guerra, né Massimo Serato, il padre del figlio Luca, né Roberto Rossellini che se ne andò per correre tra le braccia di Ingrid Bergman cui affidò, miserabilmente, il ruolo che spettava ad Anna nel film Stromboli.
Tutto l’amore che aveva dentro, Anna Magnani lo riversò sullo schermo. Diceva ai truccatori «Non togliermi neppure una ruga. Le ho pagate tutte care», come gli anelli concentrici di un albero che di anno in anno segnano un passo in più, un gradino migliore nell’esistenza di ognuno. Perché la vita è dura, ha mille salite e poche discese, ci vede attori di relazioni sbagliate, tormentate, abitudinarie. Eppure siamo noi, sempre, a tenere le redini. E possiamo decidere se lasciarci abbattere oppure, come Anna, prendere la rincorsa e saltare, in alto, verso una maggiore accettazione di noi stessi, primo, indispensabile passaggio per trasformare le nostre debolezze in punti di forza.
«Ce metti una vita a piacerti, e poi arrivi alla fine e te rendi conto che te piaci. Che te piaci perché sei tu, e perché per piacerti c’hai messo na vita intera: la tua. Ce metti una vita intera per accorgerti che a chi dovevi piacè, sei piaciuta… e a chi no, mejo così. Anche se lo ammetto, è più raro trovà un uomo a cui piaci, che te piace, che beccà uno ricco sfondato a Porta Portese!
Ce metti na vita per contà i difetti e riderce sopra, perché so belli, perché so i tuoi. Perché senza tutti quei difetti, e chi saresti? Nessuno.
Quante volte me sò guardata allo specchio e me so vista brutta, terrificante.
Co sto nasone, co sti zigomi e tutto il resto. E quando la gente me diceva pe strada “bella Annì! Anvedi quanto sei bona!” io nun capivo e tra me e me pensavo “bella de che?”.
Eppure, dopo tanti anni li ho capiti.
C’ho messo na vita intera per piacermi.
E adesso, quando me sento dì “bella Annì, quanto sei bona!”, ce rido sopra come na matta e lo dico forte, senza vergognarmi, ad alta voce “Anvedi a sto cecato!”»Anna Magnani
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