È il tradimento – meglio, l’amore fuori-canone – il grande motore di certe opere. In ossequio al rapporto intrattenuto con la letteratura dal proprio cinema, Fabio Carpi realizza un “adattamento” della migliore tradizione romanzesca, attingendo a Goethe, a Laclos, in parte al Moravia de Il disprezzo. L’amore necessario (1991) – formula desunta dal legame unico, anti-borghese di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir – è a tutti gli effetti un’indagine sui sentimenti, l’orografia di passioni esauste, tramate di un’ironia lievemente sottotraccia.
Difficile assodare se per un regista-scrittore – esente, con coerenza, dal morbo del contenutismo – il confronto con la materia possa considerarsi un dono o un’occasione fallita. La critica, tanto feroce ai tempi di Venezia 1991, sembrò a lungo tendere a quest’ultima prospettiva, accusando l’opera di algida staticità. Non così oggi, in anni dominati da rapporti liquidi, dove passioni e ossessioni reggono l’impalcatura di prodotti in serie.
Mai un uno strepito, mai un filo di dismisura guasta L’amore necessario di Carpi. È il segno di un’impronta viva, capace di palesarsi mediante una tesa, parossistica implosione dei sentimenti, laddove l’amour fou – e le sue sguaiate varianti – cedono il passo a laboriosi processi emotivi. A “rileggerlo” ora, l’intervento della censura, che vietò il film ai minori di quattordici anni, sembra ancora più ridicolo. Eppure – assumendo lo sguardo di A. J. Greimas – le isotopie patemiche, legate cioè alle emozioni dei soggetti in scena, costruiscono una griglia variamente perturbante. Ed è qui, nella modulazione di forma e contenuto, che risiede la qualità del lavoro carpiniano.
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Nell’Amore necessario si attua infatti un’importante scelta “enunciativa”, laddove la traduzione dei percorsi intimi dei personaggi segue una simmetria tematico-visiva, con il montaggio alternato quale chiave di decifrazione. Sul piano diegetico (semplificando al massimo), troviamo una coppia matura al limite della decadenza, nel duplice significato fisico e morale. A fare da contraltare, in una sorta di schema a intreccio, due giovani neo sposi irretiti nel ménage – elementi secondari di un “patto di sopravvivenza”. È l’autore stesso che fissa i contorni:
«Il film è la storia di una coppia adulta vincolata dal patto che consente a entrambi i coniugi degli amori subordinati purché non intacchino il loro legame indissolubile…»
Più che alle Affinità elettive, dunque – cui pure rimanda per suggestione olografica –, è a certi guizzi settecenteschi che mira L’amore necessario di Carpi. Le figure, a tratti sgrossate, celano segni laidi: anche gli amanti ingenui, poi irrimediabilmente corrotti, si prestano al gioco con complice passività. A disporre i fili, dietro le quinte della seduzione, un burattinaio scaltro e mortifero, interpretato da un Ben Kingsley dall’espressività disarmante. È lui, con Marie-Christine Barrault, a reggere l’impianto della tenzone amorosa; gli altri non sono che comprimari, individui di cartapesta, sospesi su un vuoto esso stesso vacuo. Periranno, pur sopravvivendo alla tempesta. E sarà un vortice devastante, l’esisto di una lunga indagine, finemente predisposta – condotta da Carpi attorno al tema delle relazioni.
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In quest’ottica, la messa in discorso delle passioni dei soggetti passa, anzitutto, mediante scelte stilistiche legate all’“uso” dello spazio. L’ambientazione, anch’essa intessuta di reminiscenze letterarie (si pensi al Kundera del Valzer degli addii), risulta funzionale a uno slittamento figurativo, laddove la casa di cura produce, in rapporto al livello plastico, una nuova significazione. Abitata da degenti – e attraversata, di tanto in tanto, da facoltosi vacanzieri – essa diviene il simbolo di un approdo straziante, il luogo in cui spira un vento di morte. Diverse le tracce disseminate: la madre di Ernesto (Kingsley) che dichiara di essere vicina alla fine; l’ospite che punta l’occhio fotografico su azioni pietrificate; gli anziani della clinica intenti a tenersi in forma. Su tutto, e come un cerchio che si chiude, il confronto-scontro tra i coniugi adulti, spogliati – dopo la doppia avventura erotica – del velo formale di una presunta libertà.
Il “patto”, sin qui avvertito come essenziale, si sgretola dinnanzi a un meccanismo consumato.
Tutto, in L’amore necessario, rivela l’artificio di certe pratiche, e tutto è intrecciato con la fine dell’amore. Il raffinato sguardo del cineasta si appunta, non a caso, sui movimenti posticci, sulla messa in scena che pervade – o meglio, logora – l’intera narrazione. Come una creatura di de Sade, Ernesto olia i meccanismi di un congegno strutturato; la tecnica di seduzione, elaborata in ogni sua parte, trasforma i fatti in recite, gli istinti in finzione. Lo mostra bene l’incontro, architettato dal nostro, fra il giovane Giacomo (Malcom Conrath) e la cameriera dell’albergo-clinica, svolto in una stanza in disuso, ricolma di oggetti, in cui persino i raggi del sole rispondo a un effetto calcolato.
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È significativa, nonché sapientemente portata a termine, la deviazione che Carpi riserva alla mente di Ernesto; in apparenza forte, più risoluto della moglie, sarà il primo a incartarsi nella malizia del suo gioco. Ecco dunque la rovina, un groviglio di sentimenti in chiaroscuro che il regista indaga da “speleologo”, abradendo i confini delle dicotomie, svelando – al di là del candore (della coppia giovane) o dell’umana decadenza (propria degli adulti) – una zona di incomunicabilità straziante. La storia, mai così vera, di individui soli che non sanno di esserlo.
Riferimenti bibliografici
Dussi N., Letteratura e cinema: Tradurre le passioni, in I. Perniola, Cinema e letteratura: percorsi di confine, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 161-191.
Greimas, A. J., Du sense II. Essays sémiotiques, Paris, Seuil, 1983, trad. it., Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1985.
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