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Amarezza da connessione: la fragilità della parola ai tempi della didattica a distanza

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In questi giorni molti docenti, nelle aule scolastiche vuote degli istituti superiori, proseguono sulle piattaforme digitali il loro dialogo con gli allievi. Riceviamo e pubblichiamo con piacere la riflessione di Stefano Vespo, docente di lettere al Liceo F.lli Testa di Nicosia (EN).

Il senso di qualcosa di spezzato, camminando per i corridoi vuoti della scuola. La luce impassibile che entra dalle vetrate degli atri e dei corridoi allarga ancora di più il vuoto, la solitudine. Mi sento come qualcuno che, per un oscuro e inutile motivo burocratico, sia stato lasciato lì, a dover presidiare un luogo abbandonato da poco, e definitivamente. Eppure, qui, in questi corridoi, in questi atri, si muovevano persone i cui volti erano animati, in misura diversa e in modo più o meno appariscente, dalla convinzione di fare qualcosa di importante, di dovere inseguire costantemente il dovere imperioso del tempo.

Ma di quelle persone sono rimasti solo sogni: i loro volti, mentre salgo le scale, si deformano nella mia memoria in una smorfia di derisione, come se avessero compreso che io per loro non posso fare più nulla.

Entro nell’aula vuota, alzo le serrande e accendo le luci. Tanto, non c’è nessuno che mi chieda di spegnerle perché c’è troppa luce e questo disturba il suo bisogno di proteggere l’ombra della propria adolescenza. Allestisco la mia postazione, come se raccogliessi e mettessi vicini gli oggetti di un naufragio: la lavagna alle mie spalle, la cattedra, la sedia coi braccioli, i libri scolastici, le penne, il mio raccoglitore verde, il thermos in cui conservare il calore del tè, di un po’ di conforto.

I volti cominciano a sbocciare sullo schermo del computer. Ecco: questo me lo aspettavo! Gli manca quel fremito che percorre i tratti di chi ha di fronte a sé un giorno tutto da scoprire. Ma trascorrono i minuti, le ore, e quella lieve mestizia si trasforma in distrazione, in delusione sorda, in cinismo. Nei più, si smarrisce in un sorriso cattivo, distante, furbesco.

Nei migliori invece c’è come un’aria da monarchi in esilio. Il lusso dei nostri dialoghi, le pietre preziose delle vostre prime potenti intuizioni, tutto è stato inghiottito , rubato dal fondo grigio e ovattato di un monitor. Adesso vi sentite sperduti, in una terra straniera che vi priva dell’antica dignità. Di questo mi chiedono di rendere conto i vostri sguardi.

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Ma cosa esattamente avete perduto? C’è qualcosa di essenziale che vi hanno sottratto, riducendovi in questo stato, questo l’ho capito; ma cosa è? Perché siete così privi di spirito… di parola? Ecco: la parola! Questo è ciò che manca: la parola!

La parola che penetra e che scuote. La parola, quella che in certi momenti la presenza silenziosa dell’altro, l’intero corpo dell’altro, chiede di scavare dentro noi stessi per poterla donare. La parola che precipita verticalmente nel tempo, che riannoda il filo tra le generazioni, che fa passare di mano il mondo, dai padri ai figli. Parola potentissima. Parola fragilissima.

Un monitor è una fortezza impenetrabile per questa parola.

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Devo confessarvelo. È inutile che tenti ancora. Quel dono è impossibile. Dovete rassegnarvi: lo strumento mi forza in una direzione opposta, verso una pratica diversa. Io adesso ho un nuovo ruolo, non sono più quello che avete sempre creduto che fossi. Questo piccolo e innocuo mezzo in realtà mi sostituisce del tutto. Le cose filerebbero lisce se facessi fare tutto a lui.

Come ci hanno detto nei corsi di formazione sulla didattica a distanza, si tratta di cercare sulla rete o nell’archivio che la piattaforma mette a disposizione un video accattivante, capace di solleticare l’interesse con immagini seducenti, con la voce di un bravo attore. Sono così tanti che basta uno a caso sull’argomento previsto dal programma ministeriale. Poi basterebbe proporvi di fare una presentazione multimediale. Allora cerchereste sulla rete le poche essenziali nozioni che vi servono a montare un testo insieme alle immagini, alle musiche, alla vostra voce. Servono poche conoscenze per fare una cosa del genere, e soprattutto non servono i libri.

Ricordate i libri della biblioteca scolastica? Vecchi libri preziosi, a cui mi sforzavo di avvicinarvi per tenervi ancora annodati alla memoria?

Ma adesso basta solo un poco di abilità a navigare sulla rete e l’abitudine a questa nuova lingua, la capacità di imitarla. I contenuti, i modelli da imitare, forniscono tutto loro: il computer, la rete. Vi entusiasmereste in questa ricerca, in questo gioco. Vi sentireste soddisfatti, appagati. I vostri genitori ammirerebbero il modo in cui la scuola finalmente si adegua ai tempi.

Per questo dico che non si tratta, come pensano tanti miei colleghi, di un breve periodo, di una breve pausa, e poi tutto ritornerà alla normalità. Dopo le cose non saranno più come prima. Verrà compromessa per sempre ai vostri occhi la fiducia in un modello di scuola, che apparirà definitivamente segnato dall’ineguatezza al proprio tempo. Si tratta della prova generale di un cambiamento definitivo.

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Ma per i miei gusti questo indiscutibile, ferreo, indeformabile nuovo modello è solo una chiacchiera. La mera assuefazione ad un linguaggio che parla all’epidermide, che si consuma e si perde. E poi, a cosa si ridurrebbe il mio ruolo? Non avreste bisogno di un insegnante, ma di un tecnico della comunicazione. Il vostro luogo non sarebbe più la scuola, ma lo spazio virtuale della rete.

Guardo gli alberi immobili fuori dalla finestra. L’aria è ferma. Uno strano prolungamento dell’estate la mantiene ancora calda. L’umidità notturna che bagna il cortile le prime ore del mattino si è completamente asciugata. Non c’è nessuno neanche lì. E quegli allievi a cui ero abituato resteranno solo nel mio ricordo. Forse anche lì si sfocheranno e nella pratica quotidiana del nuovo modello di scuola finirò per dimenticare anch’io.

I volti di quei monarchi in esilio si allontanano sempre di più: qui non possono trovare la parola che cercavano. Quei volti, quelle espressioni…

Cosa fate? Vi voltate da un’altra parte. Ci lasciate. Fate spazio a nuove generazioni, ad altri volti che quella parola la riterranno inutile. Forse, è per sempre.


Immagine di copertina: Photo by Mwesigwa Joel on Unsplash

 


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