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Non nascere, ma diventare: «Un’altra donna» di Jennifer Guerra

Che cos’è una donna? Quale universo di significati, implicazioni politiche, sociali, culturali e biologiche fanno da satellite a questo sostantivo? È ciò su cui si interroga la scrittrice Jennifer Guerra nel suo ultimo lavoro.

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5 minuti di lettura

Che cos’è una donna? Quale universo di significati, implicazioni politiche, sociali, culturali e biologiche fanno da satellite a questo sostantivo? È ciò su cui si interroga la scrittrice Jennifer Guerra nel suo ultimo lavoro, Un’altra donna (UTET, 2023).

Femmina adulta di essere umano

Quella di Jennifer Guerra è una voce giovane, divenuta sempre più incisiva nel panorama giornalistico e della divulgazione culturale italiana già a partire dai suoi primi contributi editoriali. È una voce limpida, energica, tagliente, ma soprattutto femminista. E femministi sono anche i suoi saggi — Il corpo elettrico (Tlön, 2020) e Il capitale amoroso (Bompiani, 2021) —, manifesti politici volti a cucire assieme il piano teorico dei gender studies a quello concreto di un’auspicata quanto necessaria prassi rivoluzionaria.

Un’altra donna di Jennifer Guerra nasce dall’esigenza di proporre una definizione alternativa a quel «femmine adulte di essere umano» di ispirazione tutta biologica che campeggia nei vocabolari. Per farlo, l’autrice assegna alla pagina il compito di aprire uno spazio polemico di riflessione che congiunge orizzonti speculativi differenti — filosofico, sociologico, antropologico, storico. Un itinerario che conduce, in ultimo, all’impossibilità di pervenire ad una soluzione concettuale e linguistica univoca, definita e monolitica. Perché «donna non si nasce, si diventa», perché «donna è un campo aperto di possibilità, la cui essenza sta nell’impossibilità di definire un’essenza».

«Non si capisce più nulla»

Sembrerebbe ci sia stato un tempo in cui dire cosa donna volesse significare sia stato abbastanza semplice, mentre ora viviamo in un momento storico in cui, citando una locuzione ricorrente, «non si capisce più nulla». Ma se non capiamo più nulla, è perché qualcuno si è preso la briga di smontare, visioni e definizioni tutte figlie di una cultura patriarcale basata su una perniciosa quanto astuta assolutizzazione del dato naturale e conseguente trasposizione sul piano sociale. Se è vero infatti che la sussistenza di una diversità biologica tra donne e uomini ha informato la storia dell’umanità sin dalle sue origini, tale differenza, tuttavia, non è stata immediatamente posta a principio del venturo, longevo e tutt’ora sussistente processo di sottomissione femminile. Nell’antichità il progressivo confinamento delle donne nello spazio domestico avviene in quelle società in cui l’agricoltura si basa sull’uso dell’aratro, il cui impiego richiede, come è possibile immaginare, una certa forza fisica. Ciò conduce alla creazione di un contesto infrastrutturale e commerciale che non richiede la loro presenza. Per la stessa direttrice prosegue la suddivisione degli spazi, ad esempio, in età vittoriana, dove la teoria delle sfere separate distingue tra uno spazio domestico in cui le donne possano sfornare e accudire la forza lavoro del domani e uno spazio sociale, politico che è concesso di abitare solo agli uomini.

La teoria delle sfere separate è il presupposto su cui si edifica l’intera struttura della società moderna, nonché il primo bersaglio di quella lotta femminista che punterà ad una riappropriazione e risignificazione del corpo da dato naturale manipolato dal patriarcato a supporto della sottomissione della donna a strumento di libertà ed emancipazione.

Qualcosa che non nasce, ma diventa

Le prime femministe, dunque, ricorrono al corpo usato per sottometterle come strumento di emancipazione, rovesciando il dato biologico per ottenere un’uguaglianza formale, politica. La loro rivalsa, però, rivela ben presto una macchia, quella che Lea Melandri definisce nei termini di un’infamia originaria che rende loro difficile, se non impossibile, proporre una definizione di donna che non la veda rapportata all’uomo. L’alterità femminile, il soggetto del femminismo che verrà sembra impossibile da definire se non in difetto rispetto all’uomo.

In fondo, la riflessione intellettuale sulle donne non aveva lasciato ad esse «altro che il proprio corpo», e da sempre. Quando questo riferimento, nella sua significazione maschile, viene a mancare, si comincia a navigare in assenza di coordinate certe. Non sussistendo più un confine netto a demarcare la divisione tra i sessi, si apre un problematico «uno spazio aperto di possibilità» per qualcosa che «non nasce, ma diventa», chiamando in causa una certa Simone De Beauvoir.

È Judith Butler a portare alla luce la problematizzazione del soggetto del femminismo e del conflitto che coinvolge il concetto di identità femminile. Si chiederà in Questione di genere se è davvero ancora la donna il soggetto del femminismo, «se ha ancora senso parlare di un’identità femminile come presupposto scontato per la costruzione di una politica femminista». Propone di scartare dal fondazionalismo, cioè di smettere di considerare l’identità femminile come qualcosa di fondativo e vederla come qualcosa che viene generato. E per Jennifer Guerra, Butler ha ragione quando scrive che «anche se si “è” una donna, ciò di sicuro non è tutto ciò che si è». Perché anche aggrappandosi alla più identitaria delle concezioni di donna, resta comunque un qualcosa di residuale che si pone oltre il semplice perimetro della norma. In assenza di questo scarto, le donne non avrebbero preso coscienza della loro oppressione e non si sarebbero organizzate come movimento politico per ribellarsi.

Pensarsi oltre

Per la studiosa Catherine Malabou solo il distinguere donna da femminile potrebbe risolvere l’impasse della differenza sessuale senza abdicare al femminismo, leggendo quest’ultimo come

uno spazio tra i generi, uno spazio di meraviglia e sorpresa che limita i generi a spazi senza contenuto, spazi che sono vuoti e per questo inviolabili. Tra il concetto di donna e quello di femminile ci sarebbe infatti una superficie attraversabile e indefinita, un’eccedenza dove si innestano lo stupore, la lotta, la resistenza, l’ipotesi. È la superficie che De Beauvoir chiamava trascendenza.  Non avendo nulla a cui aggrapparsi — non la tradizione, né l’autorità, né la biologia del maschile-universale — di fronte a lei c’è un campo aperto di possibilità. In questo spazio la donna ha imparato a pensarsi oltre la “femmina adulta di essere umano” che le è sempre stato imposto di essere.

Una possibile soluzione, alla luce di queste premesse, è individuata dall’autrice nel tentativo di formulare «un concetto minimale di donna» in grado di cucire assieme le identità nonostante tutte le differenze possibili. Questo elemento è ricercato nell’esperienza quotidiana di violenza ed oppressione che tristemente accomuna tutti i soggetti femminilizzati, ma anche nella loro impossibilità di essere degli «io che dicono io», citando Carla Lonzi: delle soggettività, cioè, a cui per pensare se stesse, a differenza degli uomini, non basta trascendere verso l’universale (perché essi sono già questo universale, senza alcuno sforzo di immaginazione). L’universale maschile, infatti, è norma ed è già confezionato, ed è ciò che rende difficile per gli uomini pensarsi al di fuori del loro essere uomini.

Ciò dunque vuol dire che essere femmine coincida semplicemente con l’essere vittime, lasciandoci tornare ad un ulteriore processo di deprivazione che ci porta ad essere niente? La risposta è chiaramente negativa, e lo è perché nella lettura proposta la violenza subìta diventa «spazio di trasformazione, in virtù della nostra capacità immaginativa». La stessa capacità immaginativa con cui le donne prima di noi hanno prima concepito e sognato un destino diverso per tutte quelle che sarebbero venute in futuro, e lottato strenuamente per realizzarlo. È per questo che di fronte alla violenza subita non siamo mai state fenici, ma salamandre.

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Al contrario della fenice che rinasce dalle proprie ceneri, in un continuo processo di generazione e rigenerazione che non cambia mai la propria sostanza, la salamandra ha il potere di far ricrescere la sua coda strappata in modo sempre differente dall’arto originario. Soltanto la salamandra può muoversi tra le fiamme con una nuova forma. L’identità femminile non è definibile né cancellata dalla violenza del maschile, ma si rigenera, in maniera sempre nuova, dall’antica ferita.

È dunque nell’impossibilità di giungere una sua definizione una volta per tutte e nei nostri infiniti modi di resistere che si espleta la reale essenza del nostro essere femminile. È per questo che «donne non si nasce, si diventa», che «donna è un campo aperto di possibilità, la cui essenza sta nell’impossibilità di definire un’essenza». È per questo che rifuggire qualunque tentativo di definizione arbitraria e costrittiva del nostro essere diviene un atto rivoluzionario, affinché da «femmine adulte di essere umano» e da fenici possiamo divenire salamandre. Che non diventano cenere, che non risorgono da nessun fuoco, perché in quel fuoco ci danzano dentro, rigenerandosi dalle proprie ferite e disegnando il destino della libertà a venire.

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Sara Campisi

Classe 1996. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

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