Nisida è un’isola. Partendo da Napoli, è la prima isola dell’arcipelago delle isole Flegree, disposte lungo il golfo di Napoli, poi ci sono Ischia, Procida e Vivara, famose e popolari da non aver bisogno di presentazioni.
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Non è importante il tempo, ma forse il luogo sì. Perché il cinema ha abusato delle strade di Napoli con Gomorra, ha esautorato l’immaginario della violenza, del crimine. Ma questa è un’altra storia. Una lingua di terra la lega a Napoli, dove i reati sono stati commessi e i responsabili confinati come detenuti in quell’isola, che di notte risplende di fascino con la luce dei suoi fari, che capta ipnoticamente lo sguardo del visitatore verso una gita; la luce che traina i visitatori come se si aggrappassero ad una corda e indica la via, abbagliante e avvolgente come la naturalezza di un pre-giudizio. Una bellezza artificiale.
Poi arriva il giorno, e il sole svela nudità indifese, storie isolate, cime spezzate. Nisida, quella parte dell’arcipelago che nega il suo immaginario, sembra essere la protagonista del romanzo Almarina di Valeria Parrella (acquista). Se Antonio Gramsci nelle sue lettere cercava di indirizzare il Partito Comunista, ormai già svilito e schiacciato dai suoi dogmi, scrivendo quanto più poteva in un solo foglio concesso per una settimana, a Nisida si respira l’horror vacui di chi non conosce ragioni, neanche la propria, in nome di una giustizia altisonante, prevaricante e insensibile.
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L’isola assume nel romanzo il suo valore storico e assolutamente attuale: l’esilio e il carcere. Qui Elisabetta Majorana arriva ogni mattina: attraversa quel ponte, quella lingua di terra, in cui per ogni passo si sveste dei suoi titoli, dei suoi privilegi, della sua storia, fino a lasciarsi dietro Napoli, il suo status, e atterra nell’isola dell’(in)giustizia. Non esiste il senso di alcuna giustizia se non ci si sa riconoscere e confrontare con il suo parametro di paragone: l’umanità. Qui Elisabetta, insegnante di matematica, ritrova la sua umanità dopo la perdita di suo marito; scopre che non esiste il giusto e l’ingiusto davanti all’urgenza di amare. Il groviglio emotivo della protagonista si snoda nella determinazione di adottare una ragazzina rumena, Almarina, che ha incrociato nel corridoio del carcere, e che le ha cambiato qualcosa dentro. Il reato è essere cresciuta per strada, nel posto sbagliato; poi il carcere di Nisida, e l’affidamento di Don Valentino. Una vita scandita secondo giustizia istituzionale.
Elisabetta, come tutti gli insegnanti che legano il proprio destino alla vita dei loro studenti, racconta la storia del suo incontro con Almarina. Il destino di una ragazzina rumena, detenuta in carcere si intreccia indissolubilmente a quello di Elisabetta, che dopo aver perso tutto, ritrova la libertà dell’amore sincero. La storia di due rette che corrono velocemente nelle costrizioni del quotidiano, ma che hanno riconosciuto il punto in cui ci si può fermare, perché era quello che stavamo cercando. Lì è siglata la giustizia, non istituzionalizzata: in due sguardi, che sono inevitabilmente di sfida, ma che cercano inesorabilmente la propria giustizia, nel confronto tra parti in un patto di libertà.
«Perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno».
Eppure le cose, prima di adempire a compimento, devono essere scoperte da uno sguardo onesto e coraggioso. Quello dell’autrice sa entrare negli accadimenti interstiziali eppure di routine del carcere: guardarsi e incontrarsi. Per poi decidere di restare, insieme.
Benedetta De Falco