In L’arte di correre Murakami fa di sé una biografia lenta, al ritmo di quelle maratone che hanno scandito la sua vita, come una terapia dello spirito. Racconta la fatica e la gioia di alzarsi ogni giorno per allungare le gambe sulle stesse distanze, prima infinite poi irrinunciabili, piccola dose quotidiana di serenità. Dice delle delusioni, soprattutto, che scolpiscono la forza della resistenza. Della testardaggine che insaporisce, che disegna sul percorso una meta ogni giorno da raggiungere, e superare.
«Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro»
Murakami Haruki nasce nel 1949 a Kyoto e cresce a Kobe. È scrittore, traduttore e saggista. Nipote di un monaco buddista, figlio di un docente di letteratura giapponese, inizialmente studia drammaturgia presso la facoltà di lettere dell’università Waseda. È solitario, riservato, qualche volta ribelle. Gli anni che passa all’università sono quelli segnati dalle rivolte studentesche. Lavora part-time, girovaga, bazzica i jazz bar, va e viene dai cinema. Frequenta una ragazza che poi sposerà, e con cui, nel 1974 aprirà un jazz bar a Kokubunji (Tokyo), il Peter cat. I gatti lo popolano in ogni angolo, e nella nuova versione ampliata che inaugurerà qualche anno dopo in una zona più centrale, modelleranno qualunque gingillo, dalla gigantesca insegna dello Stregatto all’esterno, ai tavoli, tazze, fiammiferi all’interno.
Intreccia musica e letteratura in quegli anni duri ma liberi, quando nel suo locale prepara da bere, legge e ascolta, la musica e le persone. Un melting pot che dà linfa sempre nuova a un ignaro scrittore in formazione. L’innamoramento nasce spontaneo e apparentemente la fiamma si accende senza innesco.
Murakami racconta la sua scrittura, una passione sbocciata senza preamboli né presupposti, nata nel cuore come un bisogno, per riempire un vuoto che prima non c’era, o non era percepito. È bella la rassegnazione, pacifica, con cui asseconda i suoi bisogni, e i suoi limiti, cosciente del fatto che è un essere umano, quell’essere umano. Non vota la sua vita al raggiungimento del successo, ma con orgoglio dice di sé che «se non altro, fino alla fine non ha camminato».
Un autore che non si sente un talento, ma che profondamente riflette sul concetto di creatività, su ciò che la pompa e ciò che la prosciuga, su come nasce, vive e poi, senza apparente motivo, si avvilisce e muore. Un giapponese che con diligente disciplina costruisce una vita dignitosa, che il sacrificio e la costanza modellano quotidianamente. Murakami parla di un allenamento alla vita, fisica come spirituale, l’imparare a camminare diritto e senza rimorsi, anche su sentieri impervi.
«Chissà se volgendo gli occhi al cielo posso vedervi un barlume di benevolenza? No, non vedo niente. […] Quella che vedo è la mia natura di sempre. […] Con lei, come fosse una vecchia borsa tenuta a tracolla, ho percorso molta strada. Non me la porto appresso perché mi piaccia. […] Mi sono rassegnato a tenermela perché non ne ho un’altra di ricambio»
È una personalità asociale e atipica quella che affiora dalla manciata di pagina di autobiografia che l’autore regala a se stesso. Spesso rifugge le relazioni sociali, ma sente un calore intenso e un istinto ad avvicinare quelle persone che una passione allaccia a lui. I maratoneti, quelli seri e quelli amatoriali, belli nel loro imperterrito esercizio domenicale fine solo ad assicurare loro una classificazione con tante cifre alla prossima gara. Freschi, luminosi, i maestri e gli allievi, gli esperti e gli ignari, che si avventurano sul sentiero della corsa o del triathlon. Magari si danno qualche pedata nello stomaco alla partenza, o giocano a superarsi in corsa, ma alla fine, oltrepassata la linea del traguardo, tutti si voltano indietro, per specchiare negli occhi degli altri quella stessa luce che brilla nei loro.
«Al contrario di loro, io sono abituato a perdere, anche se non ne vado fiero. Di cose al mondo che mi sono restate fra le mani, di avversari che non sono riuscito a battere, ce ne sono montagne»