Borges va conosciuto al momento giusto. Non è un autore che si può amare sempre. Bisogna avere una certa predisposizione d’animo, forse anche essere in un particolare periodo della vita per poterlo comprendere. No, comprendere è una parola davvero grande quando si parla di Borges. Per poterlo semplicemente amare, ecco. Se non lo si legge al momento giusto, il rischio è grande. È facile classificarlo come uno di quegli scrittori troppo astratti, troppo metafisici per poter essere apprezzati. Non racconta una storia, i suoi protagonisti spesso non hanno nome né volto; troppe sono le volte in cui si finisce ai confini del paradosso, ancora di più quelle in cui lo si oltrepassa.
Ma quando è il momento giusto per leggere Borges? È impossibile saperlo. Bisogna rischiare, magari anche abbandonarlo e riprenderlo fiduciosamente dopo qualche anno. Ogni attesa, ogni sforzo verrà ripagato: amare Borges è qualcosa che scalda il cuore e la mente. Ci sono momenti in cui si avrà l’impressione di contemplare la vera Bellezza, quella con l’iniziale maiuscola, e addirittura si sentirà il bisogno di fermarsi per non sciupare quel momento, per non sovraccaricarlo di nuove emozioni. Tutto questo compensa quell’altra sensazione, anch’essa sempre presente quando si legge il geniale argentino: che ci sia sempre – sempre ci sarà – qualcosa di inafferrabile, irrimediabilmente al di là della nostra comprensione.
Jorge Luis Borges, nato a Buenos Aires nel 1899, inizia la sua carriera di scrittore con una raccolta di poesie, Fervore in Buenos Aires (1923). A detta dei suoi critici, però, è nelle opere in prosa che lo scrittore argentino dispiega tutto il suo talento. Per chi si appresta a conoscere l’autore, dunque, è consigliabile partire da queste. Aleph, la seconda raccolta di racconti pubblicata nel 1949, è decisamente un’ottima scelta.
E perché non Finzioni, la prima in ordine cronologico (è del 1944) e certamente opera di non meno valore? La decisione è del tutto personale, naturalmente. Con Aleph però si ha la possibilità di entrare nel mondo di Borges quasi in punta di piedi, come sbirciando attraverso una finestra. Nei diciassette racconti che compongono la raccolta lo scrittore argentino dispiega, come è sua consuetudine, tutta la sua erudizione – Borges fu, tra le altre cose, profondo conoscitore delle letterature inglese, spagnola e greca antica – ma in piccole dosi, tali che non cogliere tutte le allusioni di cui è pervasa l’opera non ne disturba l’apprezzamento. E inoltre con Aleph si può intraprendere il viaggio nell’universo-Borges con uno dei suoi più grandi capolavori: L’immortale.
Le poche pagine che compongono questo racconto offrono un assaggio della profondità che Borges può raggiungere e anche una prima visione di quelle che sono le tematiche ricorrenti nella sua opera. Un tribuno romano militante sotto l’imperatore Diocleziano decide di partire alla ricerca della mitica Città degli Immortali. Dopo un estenuante viaggio nel deserto la sua perseveranza viene premiata: ma ad attenderlo non c’è quello che lui si aspettava di trovare. La Città gli appare orribile e gli uomini che la abitano sono privi di vitalità e hanno perso perfino la parola. Per accedervi, inoltre, il protagonista deve trascorrere del tempo in un’angosciosa e labirintica grotta, che più volte lo fa pentire dell’impresa. Ma infine anche lui diventa uno degli Immortali. Solo per scoprire, però, che ciò che rende gli uomini tali è proprio la mortalità. Privati di essa, gli uomini non sono più in grado di vivere quella vita che tanto temevano di veder finire. Inizia così la ricerca opposta: quella di un fiume in grado di restituire la mortalità e insieme ad essa la vita degna di essere vissuta.
«Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa terribile, divina, incomprensibile, è sapersi mortali».
Il labirinto è uno dei fils rouge che collega tutta l’opera di Borges. Lo si ritrova in un altro capolavoro del grande scrittore, La biblioteca di Babele, uno dei racconti della raccolta Finzioni. La biblioteca infinita qui descritta, composta di sale esagonali, è la costruzione mentale da cui certamente ha tratto ispirazione Umberto Eco, quando ha dovuto creare l’intricata biblioteca del monastero ne Il nome della rosa. Ma anche in Aleph il labirinto torna più volte. Come ad esempio nel racconto La casa di Asterione, in cui emerge prepotente l’interesse di Borges per il mondo antico. Il protagonista, inizialmente senza nome, si addentra nel labirinto di quello che – si capisce nel corso del racconto – è il celebre minotauro cretese. Le riflessioni sulla vita, sulla morte e sul dolore caratterizzano queste poche ma intense pagine, fino alla rivelazione dell’identità del narratore, che lascia attoniti e spinge a rileggere il racconto dalla nuova prospettiva acquisita.
Altre sono le tematiche ricorrenti in Borges: la tigre, i libri, la spada. Ma la più grande fonte di ispirazione della sua opera è, forse un po’ banalmente, il mistero della vita. Una vita vista talvolta come sogno, come una grande illusione, e talvolta come una ricerca dei principi che fondano l’universo. A questo sono ispirati due dei più celebri racconti di Aleph: Lo Zahir e Aleph.
In Lo Zahir il protagonista è Borges stesso, che giunge in possesso di una moneta – lo zahir appunto – e presto scopre di non potere più fare a meno di pensare ad essa. Zahir infatti è una parola araba che indica un concetto o un oggetto che arriva a ossessionare l’uomo, al punto da fargli perdere il contatto con la realtà. Ma, riflette Borges, questa non sarebbe per lui la fine della vita: come un paziente sotto anestesia, infatti, egli non percepirebbe più nulla se non la grandezza dello zahir, l’unica cosa in grado ormai di riempire la sua esistenza. Il racconto lascia con un interrogativo: che cosa siamo, dunque, se un oggetto tanto piccolo e insignificante come una moneta riesce a sostituire tutto ciò che avremmo prima definito “vita”?
«Oggi è il tredici di novembre; il giorno sette di giugno, all’alba, lo Zahir giunse alle mie mani; non sono più quello che ero allora, ma ancora mi è dato ricordare, e forse narrare, l’accaduto. Ancora, seppure parzialmente, sono Borges».
Aleph chiude la raccolta di racconti che da esso prende il nome. Protagonista è ancora una volta lo stesso Borges che, ascoltando i racconti di un amico, poeta mediocre e un po’ fanfarone, scopre un luminoso punto nella cantina di quest’ultimo. Questo punto luminoso non è altro che l’aleph. Guardandolo da una certa prospettiva, Borges è in grado finalmente di vedere tutto ciò che compone l’universo, una rivelazione folgorante e insieme terribile. Tanto che dopo qualche tempo lo scrittore se ne dimentica: forse è la sua mente che, nel timore di non riuscire più a godere la vita nella sua pienezza, ha rimosso quella visione, troppo grande da sopportare.
«Vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato: l’inconcepibile universo».
Aleph è una summa perfetta di quello che è Borges. Eppure non è un punto di arrivo, bensì di partenza. D’altra parte lo suggerisce l’autore stesso: aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella che simboleggia Dio e la complessità dell’universo. Impossibile comprenderli nella loro interezza, come sempre inafferrabile rimarrà l’opera di Borges. Ma per chi vuole tentare l’impresa impossibile il punto di partenza è questo: aleph.
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