Che l’uomo si lasci fuorviare dall’esteriore è noto, forse è addirittura diventata una delle espressioni che meglio descrive l’uomo moderno (modernizzato) e assente. L’essere esteriore, l’essere rappresentabile e accettabile dagli altri, ha reso insidioso dimostrare quanto l’apparenza delle cose provochi spesso degli abbagli.
«L’aspetto esteriore è un meraviglioso pervertitore della ragione».
Marco Aurelio (121 d.C- 180 d.C.)
Già di per sé, l’esteriorità limita ciò che può essere percepito, senza un’intima e diretta partecipazione. Un atto al di fuori. Uno schema iconografico troppo concentrato sulla facciata esteriore: espressione di ciò, è l’esplosione dei social network nella loro sociale individualità.
In questo rapporto tra esterno e interno si inserisce perfettamente la cultura del tatuaggio, da una parte inteso come permanenza e segno di riconoscimento, dall’altra come simbolo di omologazione di massa. La parola “tatuaggio” è un vero e proprio prestito linguistico della parola polinesiana tatau che significa “corretto a regola d’arte”. Da Tahiti e dalle isole Samoa, il tattoo viene descritto in occidente come puntura, come pittura o colorazione del corpo. Si narra infatti dei primi marinai che nei loro viaggi avrebbero introdotto il termine e il concetto in tutta Europa, fino alla prima testimonianza accertata, datata 1769, di James Cook in ritorno dal suo primo viaggio: nel suo racconto si riferisce proprio ad un’operazione denominata tattaw.
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Per migliaia di anni, i tatuaggi hanno espresso convinzioni, hanno mostrato le memorie conservate, al contempo però sono anche stati utilizzati come forma di punizione. In principio, la cultura occidentale associava i tatuaggi principalmente agli individui che vivevano ai margini della società; tuttavia, oggi sono riconosciuti come una forma d’arte legittima e ampiamente accettata all’interno della cultura mainstream.
Oggi, se ci guardiamo intorno, più persone di quante ne vediamo per strada hanno almeno un tatuaggio. Che siano riconosciuti come forma d’arte o semplicemente che vengano universalmente accettati, ormai vengono utilizzati anche per le pubblicità e rappresentano in tutto e per tutto uno status symbol contemporaneo, distribuito quasi su tutto il pianeta. Una modificazione del corpo con l’inchiostro che in ogni cultura trova il suo riscontro. Tra frasi scarabocchiate e immagini tribali, il tessuto epiteliale, ovvero l’organo più esteso del nostro corpo, quello più sensibile e visibile, diventa una tela in continuo movimento.
Alan Powdrill, giovane fotografo britannico, con il progetto Covered, propone la sua visione del fenomeno, tra l’ingannevole apparenza e il buon costume, tra interiorità ed esteriorità. Tutti i suoi soggetti hanno un forte segno di riconoscimento. Completamente ricoperti di tatuaggi, vivono in una duplice realtà: vestiti e semi-nudi, o solamente “vestiti” dai loro tatuaggi, sfoggiano la loro vera identità e insieme dipingono un contraddittorio ritratto, ma mai inconsistente, di una persona e della sua storia.
Ciò che ha colpito principalmente Powdrill lavorando con veri appassionati di body art, sono stati i sacrifici economici e fisici a cui ognuno è andato incontro per avere il disegno dei propri sogni per sempre sulla pelle. Tutti i protagonisti dei suoi scatti, dopo ore di dolore e montagne di soldi spesi, sono tutti concordi nell’avere assistito alla creazione di un pezzo d’arte.
Ogni tatuaggio diventa così un racconto di una storia di vita vera e ogni storia evolve insieme al proprio tatuaggio. Questo è stato l’intento principale di Powdrill: mostrare che quei tratti, quei colori impressi sulla pelle, sono parte integrante di chi li porta, non solo fisicamente.
Alan Powdrill rimane da subito incuriosito e affascinato e, anche se per ora non ha nemmeno un tatuaggio, la sua è una curiosità verso tutto ciò che è sconosciuto, ribelle e audace. Originariamente trova i suoi soggetti presso le conferenze che radunano tatuatori e appassionati da tutto il mondo, poi attraverso il passaparola e i social network. Dopo un’esposizione importante nei sotterranei del Mother di Londra, Powdrill non ha smesso di essere alla ricerca di nuovi soggetti. È possibile partecipare al progetto anche inviando la propria richiesta a alan@alanpowdrill.com.
Una vera messa in scena dell’interiorità di ognuno di noi, di quella sfera della vita di ciascuno che è difficile da decifrare quanto da portare al di fuori. Il paradosso socratico espresso dalla frase «So di non sapere» non è così lontano da noi. Come catapultati in un gioco di specchi, in una metafora spaziale tra interno e esterno, le immagini di Alan Powdrill riescono a far riflettere entrambe le parti, a far trasparire i nostri atti interiori. Tra gesti, scelte ed espressioni, la nostra interiorità ha la possibilità di esprimersi e di rendere “leggibile” se stessa.
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