«Happiness Can’t Be Faked» in italiano letteralmente suona come «La felicità non può essere falsificata», o meglio risuona, rimbomba, lascia il segno dietro di sé, soprattutto nella quotidiana sequenza di realtà che ci viene proposta. Dietro questa scritta, registrata dal Guardian il 18 agosto 2008, c’è un mondo intero, quello dell’artista cinese Ai Weiwei, che nella sua carriera diventa il segno, il simbolo moderno dell’arte usata come metodo (o veicolo) di ribellione, protesta e, a volte, scandalo.
Nel 2009 dichiara «My favorite word? It’s act». Agire, costruire, trasformare, ecco qual è il mondo, l’arte di Ai Weiwei; e tale diventa anche il suo legame con la fotografia: ogni giorno della sua esistenza è unito a un’immagine, uno scatto a descrizione di un attimo o di un’intera carriera.
La fotografia così per lui diventa il mezzo che, insieme alla sua diffusione, serve per esprimere se stesso o per spiegare, descrivere e dettagliare la sua stessa arte. Il risultato che arriva a noi è diretto e sembra non usare filtri, diventa da subito un documento importante su persone, modi di vivere, sull’abitare e il vivere quotidiano, un sapere condiviso a ogni latitudine e contro ogni autocensura.
«Self-censorship is insulting to the self. Timidity is a hopeless way forward»
(L’autocensura è un insulto a se stessi. La timidezza è un mondo senza speranza davanti a sé).
Facendo un passo indietro, nell’onomastica cinese il cognome precede sempre il nome e non può, mai, essere escluso dal nome che segue: Ai è quindi il cognome, la stirpe di discendenza che lo lega al padre, Ai Qing, noto poeta cinese, ritenuto anche un estremista politico, costretto più volte a lasciare la città di Pechino insieme a tutta la sua famiglia.
Così il giovane Ai Weiwei, nato nel 1957, cresce prima a Heilongjiang, nella Cina nord-orientale, e poco dopo nella zona desertica dello Xinjiang, nella Cina nord-occidentale. La morte di Mao Tse-tung, nel 1976, segna per la famiglia Ai una svolta: reinserito a Pechino Ai Weiwei può avere accesso agli studi accademici iscrivendosi alla Beijing Film Academy e lentamente iniziare a creare il personaggio discusso che è diventato negli anni, personaggio al confine tra artista e attivista.
L’occidente lo conosce nel 1981, quando decide di trasferirsi a New York fino al 1993: frequenta la Parsons School of Design, scopre le opere di Marcel Duchamp e Andy Warhol, rimanendone, nell’accezione positiva del termine, folgorato.
Il tempo trascorso sommerso nella scena d’avanguardia di New York forma la sua pratica concettuale e dà vita ad alcune delle sue opere di maggior successo. Le immagini della “sua New York” sono invece una sorta di diario: non solo persone, tra storie e strade, ma anche il degrado, letto attraverso la natura urbana. Ai Weiwei torna a Pechino nel 1993 con un archivio di più di 10.000 fotografie che mostrano le rivolte a Washington Square, artisti e intellettuali al lavoro e autoritratti catturati nel mezzo del caos cittadino.
Il suo ritorno in Cina porta alla fondazione dell’East Village di Pechino, una comunità di artisti d’avanguardia e nel 1997 diventa il cofondatore dell’Archivio delle arti cinesi (CAAW), uno dei primi spazi artistici indipendenti di tutto il paese. Il suo interesse verso l’architettura si sviluppa invece dal 1999, quando progetta la propria casa studio a Caochangdi, nella zona nord-est di Pechino.
La sua arte inizia a esprimersi in ogni angolo del pianeta, si espande senza precedenti tra i suoi connazionali: nel 1994 produce la serie Seven Frames, una serie di scatti dettagliati a descrivere le guardie di Beijing, dettagli con grandi richiami al comunismo del passato.
Il 2000 è il pieno del suo fervore artistico e della sua espressione: nel 2003 fonda il suo studio, il FAKE Design. Nel 2007 partecipa a Documenta 12, portando a Kassel 1001 cittadini cinesi come parte del suo progetto Fairytale.
Nel 2008, dopo il terremoto che crea il caos sulla provincia di Sichuan, Ai Weiwei si reca nella regione per documentare la faccia della distruzione.
Più di 69.000 persone sono state uccise nel terremoto, tra cui molti bambini, sepolti quando le loro scuole sono crollate. In questa occasione l’artista è stato duramente percosso dalla polizia per aver tentato di convincere il governo a rilasciare un elenco ufficiale delle persone uccise nel disastro. In questa sua battaglia è stato in grado di ottenere 5.385 nomi degli studenti uccisi, tutti, uno a uno, pubblicati sul suo blog per il primo anniversario del terremoto.
Il 2010 poi è l’anno dei girasoli di porcellana: 100 milioni di semi di girasole invadono il pavimento della Turbine Hall della Tate Modern e nel 2011 il suo Studio di Shanghai, viene demolito perché dichiarato illegale dal governo cinese. Ai Weiwei ne documenta fotograficamente il processo, giorno per giorno.
Protagonista di mostre presso i più importanti musei internazionali, il Martin-Gropius-Bau di Berlino, l’Hirshhorn Museum di Washington D.C., la Tate Modern e la Royal Academy di Londra, solo per citarne alcuni, Ai Weiwei viene considerato uno dei più celebri artisti viventi, che negli ultimi anni ha associato il suo nome a importanti battaglie politiche per la libertà di espressione e la difesa dei diritti umani.
Le sue performances esprimono con certo gusto minimalista le trasformazioni, anzi le plasmano con le proprie invenzioni, con un uso massiccio di “materiale umano” per produrle: più di 1.000 concittadini cinesi per i progetti del 2007 e quasi 2.000 impiegati a modellare, dipingere, cuocere e installare i semi di girasole di Londra.
Tra ironia, sarcasmo e una grande capacità di dissertazione c’è la sua contraddizione impersonificata che dal 2005 spopola anche grazie a internet: forte di una fama sempre più diffusa, critica la polizia e il sistema senza fare distinzioni tra oriente e occidente finché, con il pretesto di un’evasione fiscale e di bigamia, non viene arrestato e recluso per 81 giorni.
«In realtà, Internet non è un’estensione della mia arte; la mia arte è un’estensione di Internet. Se non c’è internet, non c’è Ai Weiwei di oggi. Sono un puro prodotto di Internet».
Study of Perspective non è solamente una serie di immagini: girato tra il 1995 e il 2003 mostra l’artista con il dito medio in evidenza contro i luoghi conosciuti di tutto il mondo, molti dei quali punti di riferimento iconici dei rispettivi paesi come Piazza Tienanmen, la Casa Bianca, la Tour Eiffel. Il gesto, catturato utilizzando una estetica di un’istantanea, si confronta con lo spettatore come una dichiarazione universale e concisa di opposizione politica. L’umorismo sardonico della serie Study of Perspective dell’artista cinese, nasconde un potente protesta dietro un gesto: il rifiuto del potere detenuto dalla cultura e della politica, e una ribellione contro l’autorità. Questa è una delle sue serie più controversa, ed è anche la quintessenza Ai Weiwei.
Per il 2016 attesissima è la realizzazione di nuovi originali lavori creati appositamente per gli spazi Italiani di Palazzo Strozzi a Firenze con un’esposizione che si terrà dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017. Ci si aspetta un lavoro studiato, come quello che l’artista aveva realizzato nel 2013 all’interno della Chiesa di Sant’Antonino a Venezia. In quell’occasione si trattava di S. A. C. R. E. D. (titolo acronimo dalle iniziali delle parole supper, accusers, cleansing, ritual, entropy e doubt), installazione composta da grandi blocchi realizzati in ferro e fibra di vetro con cui i visitatori potevano guardare oltre le fessure. Quel che c’era all’interno era la riproduzione reale dei luoghi in cui l’artista, per 81 giorni, era stato tenuto prigioniero sotto sorveglianza costante, dunque si trattava di un racconto duro e reale.
Il suo modus operandi piace o viene detestato, di certo lui stesso non è estraneo al senso del rischio, anzi sembra sempre esserne alla ricerca costante. Ai Weiwei rimarrà sempre personaggio amato e discusso, ricercato e rifiutato nello stesso tempo: in grado sicuramente di uscire dal proprio essere ed espanderlo al mondo intero per interrogarlo, stupirlo, renderlo ridicolo e intanto farne una profonda riflessione. Una sorta di manifesto che si addice al suo personaggio, seppur discusso, è l’intersezione complessa tra pratica artistica e attivismo sociale.
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