Joe Biden ha fissato l’11 settembre 2021 come data ultima entro la quale verrà completato il ritiro militare americano dall’Afghanistan, provando così a mascherare, vent’anni dopo, un fallimento politico e militare di una situazione paragonabile forse solo alla ritirata da Saigon, accerchiata dai Vietcong e caduta nel 1975. Le circostanze in cui avviene il ritiro sono in parte diverse – l’allora personale dell’ambasciata americana fu elitrasportato in modo rocambolesco sulle navi della settima flotta che stazionavano nelle acque a largo del Paese – ma la ferita di quel ritiro è ancora aperta e anche a osservatori meno attenti, o ai meno giovani, non sfuggirà che i fatti che stanno accadendo in Afghanistan richiamano fortemente la fine della guerra del Vietnam.
Da Washington sventola bandiera bianca sulla situazione in Afghanistan
Il Presidente americano ha scelto come termine formale una data altamente simbolica, nel tentativo forse di distogliere l’attenzione e spostare il fulcro del dibattito da quello che è invece il punto chiave dell’intera situazione in Afghanistan, ovvero che la coalizione a guida americana lascia il campo non da vincitrice, e nemmeno dopo quello che si potrebbe considerare un pareggio, ma bensì da sconfitta. Almeno durante le guerre del passato, gli USA si erano sempre dovuti confrontare con avversari in qualche modo radicati nel territorio, con aspirazioni concrete e al contempo delimitate, quella della guerra al terrorismo invece, e quindi ad una tattica, si è rivelata a lungo termine una sfida difficile da interpretare e quindi giustificare. Sia sul piano politico che militare.
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La consapevolezza di trovarsi di fronte ad una situazione incancrenita e la necessità di adattare gli sforzi ad un contesto internazionale radicalmente diverso hanno avuto la meglio su una campagna militare che, almeno durante i primi anni e fino alla cattura e uccisione di Osama Bin Laden, era stata presentata come di vitale importanza per la sicurezza e sopravvivenza stessa dello stato americano. Ma da alcuni anni raccoglie invece pesanti critiche a livello pubblico e di apparati, soprattutto alla luce degli oltre 2400 uomini caduti sul campo e degli oltre 45 miliardi di dollari annui necessari a sostenere l’intera missione che, moltiplicati per i 20 anni del conflitto portano ad un totale vicino ai 1000 miliardi di dollari, soldi che i contribuenti americani non sono più disposti a pagare così volentieri. Come è infatti emerso dai colloqui tra Washington ed i rappresentanti talebani, l’unica preoccupazione americana è quella che, una volta lasciato il Paese, i gruppi ribelli non ospitino nuovamente o comunque non diano supporto, come accaduto in passato, a gruppi terroristici legati ad Al Qaida. Si tratterebbe di un affronto forse eccessivo.
Per quanto riguarda il resto, ovvero i diritti delle donne, la cui alfabetizzazione tra le giovani è passata comunque dal 20 al 60% circa, e la costruzione di uno Stato in grado di camminare sulle proprie gambe e di tutto ciò che potenzialmente ne deriverebbe, da Washington sventola ormai bandiera bianca.
Un governo appeso ad un filo
In tutto ciò, è straniante guardare alla fragile posizione di uno degli attori che dovrebbe recitare una parte determinante nel momento in cui la coalizione internazionale lascerà il Paese, ovvero il governo di Kabul, guidato da Ashraf Ghani dall’ormai lontano 2014. Il peso di Kabul sullo scenario internazionale si evince dal fatto stesso che sia stato escluso dai negoziati di Doha tra americani e leader Taliban, confermando una volta di più il fallimento stesso da parte occidentale nel costruire un apparato credibile e soprattutto riconoscibile come interlocutore. In altre parole, da parte americana, l’esclusione del governo guidato da Ghani è equivalsa a gettare la spugna e trattare sulle migliori condizioni di resa, dando per persi anche i pochi risultati raggiunti nel Paese durante i vent’anni anni di occupazione.
Anche le tregue negoziate non hanno mai davvero influenzato il livello della violenza nel Paese, tanto che nel 2020 si è registrato un vero e proprio picco per quanto riguarda sia gli attacchi che i morti, civili e militari. Allo stato attuale, i talebani controllano in modo più o meno diretto almeno cento dei quattrocento distretti in cui è diviso il Paese, ed in particolare riescono già a sostituirsi allo Stato in alcune delle zone chiave dal punto di vista strategico, come quella del Badakhshan, confinante con il Tajikistan e, anche se solo per poche decine di chilometri, con la Cina, che guarda con attenzione. I talebani, forti dei recenti successi, hanno lanciato anche la prima offensiva contro una città afghana. Si tratta di Qala-e-Naw, il capoluogo di provincia di Badghis, nell’Ovest del Paese. Ad annunciarlo, mercoledì 7 luglio, è stato il governatore della città, Hessamuddin Shams. Le forze speciali di Kabul hanno risposto al fuoco con una controffensiva terra-aria, respingendo in parte militanti.
È proprio la superiorità aerea, assicurata dagli USA, che ha permesso negli anni di resistere ed in qualche caso anche di ottenere consistenti vittorie al debole esercito afghano, una componente cruciale che determinerà le sorti future del paese. È di pochi giorni fa la notizia che gli americani hanno smantellato, quasi da un giorno all’altro e senza avvisare gli alleati governativi, la base aerea e militare di Bagram, situata proprio nel nord del paese e che assicurava un consistente vantaggio sugli insorti. Centinaia di milioni di dollari in attrezzature sono state evacuate e non consegnate all’esercito regolare, temendo che possano, nel breve periodo, finire invece nelle mani degli islamisti. Sospetto recentemente rinforzato anche dalla ritirata disperata di un centinaio di soldati afghani che, incalzati dai militanti, si sarebbero rifugiati in Tajikistan, o dai ripetuti casi di resa, attraverso la quale i militari stessi, in cambio della garanzia da parte dei taliban di non essere soggetti a vendette, hanno consegnato equipaggiamenti militari di provenienza occidentale. Spesso quindi, i Taliban penetrano nei territori governativi senza neppure incontrare una vera resistenza.
Cina e Russia alla finestra nella situazione in Afghanistan
Il confine sino-afghano, come sottolineato già in precedenza, misura solo poche decine di chilometri, ma è fonte di una preoccupazione strategica per il PCC, il Partito Comunista Cinese. La situazione in Afghanistan, si potrebbe infatti collegare facilmente con la repressione degli Uiguri in corso nello Xinjiang, ed alla principale accusa che il Partito muove nei confronti proprio della popolazione turcomanna, ovvero quella di essere coinvolta in forme di terrorismo separatista e di ispirazione islamista. Per questo la Cina monitora con attenzione il seppur breve confine, ed addirittura piccole formazioni militari cinesi sono state viste addentrarsi nello stretto corridoio che unisce i due Paesi, creato alla fine del XIX secolo dall’impero britannico in modo da garantirsi una sorta di “cuscinetto” tra l’India coloniale e la Russia zarista. L’Afghanistan non è direttamente coinvolta nella rete commerciale e infrastrutturale che prende il nome di B&R, ma è un soggetto che nel tempo ha dimostrato di essere intrinsecamente legato al Pakistan, terminal ideale di una delle branche dell’espansionismo cinese e tra i Paesi maggiormente contesi nel nuovo equilibrio di potere internazionale. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha definito «irresponsabile» il disimpegno di Washington verso il Paese asiatico, definendo gli Stati Uniti come «ansiosi di ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan e di lasciare il caos al popolo afgano e ai Paesi regionali, esponendo l’ipocrisia dietro la loro maschera di difesa della democrazia e dei diritti umani».
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La Russia invece – dopo i fatti che hanno coinvolto l’alleato Tajikistan, il quale ha subito mobilitato al confine circa 20 mila riservisti – si è affrettata a contattare i leader Taliban per assicurarsi che il Paese non venga coinvolto negli scontri, minacciando ritorsioni. Anche l’Iran, con il quale Kabul condivide oltre 700 km di confine, si dimostra preoccupato delle possibili ondato di profughi che una nuova guerra civile provocherebbe, senza contare i già oltre 700mila profughi ospitati nel Paese. In altre parole, la dipartita della NATO lascia un vuoto di potere, almeno temporaneo, che preoccupa i principali attori politici regionali, confermando il fatto che l’Afghanistan costituisce un grattacapo non da poco per molti, e che abbassa ulteriormente la già scarsa affidabilità percepita degli USA nella regione.
Il futuro è tutt’altro che scritto
Molti degli sviluppi futuri quindi, da quello che sembra emergere, non riguarderanno se i Taliban raggiungeranno il potere, ma come lo eserciteranno nel momento in cui ne avranno l’opportunità. In questo senso alcuni analisti credono che il movimento, come risultato dell’iter negoziale, abbia ammorbidito alcune delle sue posizioni su temi quali l’educazione delle donne, l’uso dei media o la presenza di NGO sul territorio. Resta però da verificare se questo sia solo il frutto di calcoli politici, in quanto la matrice ideologica e religiosa rimane fondamentale del movimento. Da qualsiasi punto di vista si guardi alla situazione complessa in Afghanistan però, il ritiro americano apre un ventagli piuttosto ristretto di possibili sviluppi, le cui tinte scure variano solo leggermente a seconda della piega che gli eventi prenderanno.
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