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Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

«Afghanistan. Enduring Freedom»: buco nero delle coscienze e labirinto del caos

3 minuti di lettura

Che cos’è la libertà?

La seconda parte del progetto Afghanistan Enduring Freedom (regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani) al Teatro Elfo di Milano si concentra sugli anni 1996-2010, con testi e situazioni vari, giocati sulla polarità Occidente/Oriente.

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Il titolo Enduring Freedom rinvia al nome dell’operazione militare Usa dopo l’11 settembre 2001, ma si colora gradatamente di tragica ironia e porta a interrogarsi: che cos’è la libertà? È possibile esportarla e imporla? Quanti oscuri interessi si celano dietro una missione che intende riportare la pace? E che cosa succede quando applichiamo logiche aziendali alla macchina degli aiuti umanitari?

Il nostro ragionamento per categorie noi/loro, bene/male, calato nella pratica dell’azione, si rivela semplicistico e anzi addirittura dannoso, seppure spinto in origine da buone intenzioni. Afghanistan significa labirinto, buco nero delle coscienze, voragine di morte che travolge anche quando si pensa di poterla dominare e conoscere… 

I cinque testi che compongono Enduring Freedom hanno forse una maggiore accessibilità perché riferiti a eventi più vicini a noi, e trovano punti originali di innesco per la riflessione.

Il mullah talebano e il comandante Massud

Il leone di Kabul di Colin Teevan immagina un confronto serrato fra un mullah talebano e l’operatrice di un’agenzia ONU. La griglia di valori a noi più familiare (rispetto della libertà, giustizia della legge e del cuore) si rivela in tutta la sua fragile impotenza, di fronte alle monolitiche convinzioni del mullah, fiero e intelligente, ma guastato da una ideologia cieca e spietata e dall’onnipotenza ottusa di un potere violento.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

Più sfilacciato il secondo episodio di Enduring Freedom Miele (di Ben Ockert), centrato sulla figura del comandante Massud, eroe coraggioso e romantico che lotta contro i Talebani per un Afghanistan libero, sperando fino all’ultimo in un aiuto degli americani.

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Suggestiva la scena finale: Massud muore il 9 settembre 2001 per un attacco suicida; la sua morte è oscurata in tutti i media dalla tragedia delle Twin Towers. Immobile in scena, sopra di lui si muovono le immagini delle torri in fiamme, in gigantografia e poi miniaturizzate in una miriade di schermi TV.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

Il cinismo delle ONG e il difficile ritorno a casa dei reduci

Con il terzo spettacolo lo skyline di Enduring Freedom cambia: Dalla parte degli angeli (di Richard Bean) ci trasporta nella city di Londra, nel quartier generale di una ricca ONG che discute sui nuovi progetti da finanziare in Afghanistan, con cinismo e sguardo aziendale.

Emerge il lato oscuro degli aiuti umanitari, la difficoltà del dialogo con la popolazione locale, le differenze culturali. Ma il problema si amplia sulla questione delle responsabilità, la giustizia dell’intervento esterno, le piccole grandi conseguenze negative di un’azione partita con scopi nobili.

«Quando vado al lavoro, io metto in frigorifero i miei valori», sostiene con forza una cooperante, soppesando cinicamente gli obiettivi raggiunti. Di nuovo sul piatto si pone il problematico confronto noi-loro, con una forza tragica di attrito che forse poteva essere sfruttata meglio.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

E dopo gli ambigui angeli della solidarietà, ecco gli angeli della protezione, i soldati (inglesi) di Volta stellata, di Simon Stephens. Ragazzi spavaldi che in prima linea si sentono eroi, con l’adrenalina a mille nella lotta senza quartiere contro il mostro talebano e sicuri di essere indispensabili alla rinascita del Paese (che ormai invece è al collasso). Tornati a casa però, i reduci non sanno più vivere, perché la guerra è come una voragine che ti inghiotte e spegne le emozioni.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

Partire…per la morte

Enduring Freedom si chiude con il testo poetico-onirico Come se quel freddo di Naomi Wallace. Due giovani sorelle afghane in una scena deserta, la minore è invisibile sotto il burqa. È quella che sembra aver sofferto di più per le privazioni dei talebani: «Se il talebano ti vede là, le ossa ti spaccherà; prende il tuo viso bello e lo sfigura con il coltello;chiude a chiave la porta e ti monta finché sei morta», dice con una terribile filastrocca, enumerando alla sorella le crudeltà della Polizia della Virtù.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

Ma ora sembra tutto finito, le strade sono sgombre e potranno partire insieme per l’Inghilterra. Il padre già le aspetta all’aeroporto sotto il controllo degli americani… Fra scambi di ricordi, tenerezze e battibecchi, ecco spuntare un soldatino americano, frastornato forse dopo una notte di baldoria.

Enduring Freedom
Foto di Laila Pozzo

Per gradi arriva l’epifania: i tre sono morti. Hanno giusto il tempo di presentarsi, salutarsi, e fra poco dovranno partire per sempre. Un fucile spianato, anche se di amici, fa paura: ecco perché la piccola Alyn è scappata, finendo in un pozzo; e Meena è stata uccisa perché non ha seguito l’ordine del soldato, che poco dopo è saltato su una mina.

Con un linguaggio delicato e sospeso tra il sogno e la fiaba, questo triangolo tragico di vite spezzate è sintesi toccante di un mondo alla deriva.

Afghanistan. Enduring Freedom
di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace
regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani
Teatro Elfo Puccini, Milano
fino al 25 novembre 2018

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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