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Adorno e l’industria culturale: per un impegno estetico e civile

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theodor adorno

Fra le esperienze filosofiche del XX secolo, la Scuola di Francoforte segna un punto di importanza sicuramente decisiva, presentandosi come perfezionamento e allargamento del pensiero marxiano, arricchito da istanze sociologiche e psicanalitiche (psicanalisi che da questo incontro pare addirittura uscire rafforzata rispetto all’impianto freudiano iniziale, in sé francamente vacillante). I filosofi francofortesi sembrano essere stati, insomma, i più efficaci nell’intento di analizzare – da sinistra, in una maniera autorevole e coerente – le problematiche della società industrializzata del dopoguerra, con una forza ora profetica che, se non si tinge dei colori dell’Utopia come nel caso di Herbert Marcuse, può trovare in Italia un corrispettivo nella figura di Pier Paolo Pasolini.

Assieme a Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adorno scrive nel 1947 uno dei testi capitali del ‘900, la celebre Dialettica dell’illuminismo, in cui il termine dialettica rende esplicita fin dal titolo una volontà di misurarsi anche con gli elementi sovrastrutturali della società capitalistica, rendendo la riflessione ancora più ricca e approfondita. Adorno, sui cui studi musicali si tornerà più avanti, è particolarmente attento alle questioni estetiche e alle loro implicazioni sociali. Principale bersaglio della critica di Adorno è la cosiddetta Industria Culturale, il cui concetto riassume l’insieme dei vari media della società di massa, dei vari prodotti “artistici” (il più delle volte solamente spacciati per tali) che costellano e confondono la contemporaneità, dati in pasto a individui sempre più omologati dalle logiche capitaliste (e il proletariato è incluso con un senso pessimistico di disincanto). Molto superficialmente, potrebbe sembrare eccessiva la ferocia con cui Adorno si scaglia contro l’amusement, il divertimento, di cui si rileva l’affinità con «gli affari», e dunque con il mondo del denaro e dell’ingiustizia economica, ma si analizzi il significato che si dà al termine: «Divertirsi significa essere d’accordo. L’amusement è possibile solo in quanto si isola e si ottunde dalla totalità del processo sociale, e rinuncia assurdamente – fin dall’inizio – alla pretesa ineluttabile di ogni opera […]: quella di riflettere, nella sua limitazione, il tutto. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato. […] È effettivamente fuga, ma non, come pretende, fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultimo pensiero di resistenza che la realtà può avere ancora lasciato». Adorno, in quello che è probabilmente il passo-chiave del capitolo sull’industria culturale, definisce dunque amusement l’atteggiamento di colpevole connivenza che l’individuo-vittima tiene nei confronti del sistema-carnefice, come in una sorta di enorme sindrome di Stoccolma elevata a elemento strutturante. Chi trae godimento dai frutti della cultura di massa ne diventa, implicitamente e inconsapevolmente (poiché è proprio su un processo di trasformazione inconsapevole che fa leva il capitalismo) complice, è distratto dal riscatto che una resistenza intellettuale offrirebbe contro la civiltà dell’omologazione. Si tratta di una notevolissima presa di posizione estetica e sociale, responsabilizzante, sia per l’artista sia per il pubblico, lapidaria, e si tratta di un progetto improntato notevolmente all’impegno. Il disimpegno portato dall’industria culturale, questo macchinario di produzione e riproduzione del tutto simile a una fabbrica, è per Adorno alleato del potere capitalistico, e dunque un avversario da combattere.

adorno piano

La battaglia è però ad armi impari, come Adorno spiegherà nel 1966 con la sua Dialettica Negativa:  «L’esperienza vieta di appianare nell’unità della coscienza quanto di contradditorio si presenta». Se, insomma, la ragione può fare esperienza del reale (sempre dialetticamente, sempre tramite la comparazione), essa non può che limitarsi a notare le varie contraddizioni di cui esso è composto, riducendo la possibilità rivoluzionaria ad una possibilità di critica. Il reale, «dopo Auschwitz», non ha più nulla di razionale, appare anzi, per dirla con Gadda, come un «gomitolo di concause» indistricabile, e l’unica operazione possibile su di esso è quindi negativa, se si vuole passiva, ed è quella dell’obiezione. Quando Adorno scrive che «la coscienza soggettiva, che non sopporta le contraddizioni, cade in una scelta disperata» il pensiero può davvero correre alla stessa disperazione che fu di Pasolini, alla sua lungimirante visione sociale e culturale, al suo tentativo di denuncia solitario ma non per questo sussurrato, bensì gridato come nel finale di Teorema, in cui dalle spoglie di una borghesia distrutta dovrebbe nascere l’individuo per una società nuova. Purtroppo la potenza di tali visioni è dovuta rimanere solo vaticinio, che ci fa pronunciare un postumo assenso.
Dell’attualità assoluta della critica adorniana dovrebbero convincerci, anche presi singolarmente, i saggi di teoria musicale. Adorno fu, musicalmente parlando, allievo di Alban Berg, con Anton Webern il principale esponente della Seconda Scuola di Vienna, la principale conseguenza della rivoluzione dodecafonica di Arnold Schoenberg. Un tipo di musica di difficilissimo e raffinatissimo ascolto, quello prediletto da Adorno, dai contenuti anche sociali, se si pensa che, ad esempio, le due opere di Berg, Wozzeck e Lulu, affrontano tematiche scabrose come la vita dei proletari, l’alienazione mentale, la prostituzione. Una musica spigolosa, che non cede al fascino della melodia facile da «canzonetta», per meglio descrivere una società ugualmente spigolosa. Rileggendo il passo della Dialettica dell’illuminismo citato prima è facile ravvisare qui il tipo di arte positiva auspicato da Adorno, che non si volta dall’altra parte di fronte al dolore del reale, e che trattandolo lo denuncia. Non è difficile comprendere che denunciare tramite l’arte il male non è fargli pubblicità, è anzi rendere un servigio controcorrente all’Umanità, ma probabilmente chi oggi si lamenta, poniamo ad esempio, dei romanzi-inchiesta sulla Mafia non ha mai letto Adorno, e forse si sarebbe schierato a fianco dei nazisti quando censurarono Berg come «artista degenerato».

Impressionante anche la modernità di questa affermazione: «La notorietà della canzonetta prende il posto del valore che le viene attribuito: il fatto che piaccia è quasi equivalente al fatto che la si sappia riconoscere. Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione». Gran parte della produzione odierna potrebbe essere tranquillamente definita merce musicale standardizzata, avendo essa subito un’ulteriore degenerazione, da intrattenimento a sottofondo, accompagnamento, e trovandosi impoverita, semplificata al massimo per raccogliere, con logiche di mercato che non hanno nulla da spartire con l’arte, il maggior bacino di fruitori. Come vediamo, il problema di un amusement colpevole e distratto  è centrale ancora oggi, anzi esso si è ingigantito, e banalizzazione è diventata forse la parola chiave del nostro tempo, dal punto di vista estetico e non.

In definitiva, il messaggio che Adorno lancia con la propria filosofia è prezioso ancora oggi, poiché le sue riflessioni hanno sostenuto la prova del tempo e ne hanno addirittura ricevuto conferma, dando ragione persino al pessimismo di fondo che pervade la sua opera. Se l’industria culturale si è andata rafforzando, una possibile via di fuga è data perciò dalla riassimilazione della lezione adorniana, che deve partire da una seria consapevolezza intellettuale per allargarsi al mondo pratico, per gridare che la pretesa di una cultura di qualità, non compromessa, non è snobismo, bensì è il tentativo di costruire dalle fondamenta una società nuova, più equa, più cosciente.

Adorno legge

Michele Donati

 


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