Alcune stelle non hanno una luminosità costante. Mutano la loro apparenza affievolendosi e ravvivandosi ad intervalli irregolari finché, come ogni stella, collassano. Sono particolari perché la luce propria di cui brillano non conosce l’equilibrio, astri luminosi – sembrerà un ossimoro – con diverse magnitudine assolute: così Vittorio Sereni, nel 1981, ha deciso di riunire i versi nella sua ultima Stella variabile, affidando loro la voce (le voci) dell’addio, sofferto eppure risoluto, alla poesia.
Come i maestri del simbolismo francese, Vittorio Sereni nato a Luino nel 1913 dedica all’aspetto linguistico un’estrema cura (e se ne percepisce, non a caso, l’impronta sperimentale oltre che montaliana). Nell’arco di quarant’anni, mentre l’Italia passa dall’eco delle bombe all’Allegria! di Mike Bongiorno, dalla Milano in bianco e nero alla Milano da bere, sono appena quattro le raccolte pubblicate: Frontiera (1941), Diario d’Algeria (1947), Gli strumenti umani (1965), Stella variabile (1981).
Da una parte, l’ermetismo fiorentino degli anni ’30, svuotato di quelle vertiginose sfumature metafisiche che riverberano nel caposcuola Mario Luzi; dall’altra, la prosaicità crepuscolare di Guido Gozzano, soggetto della tesi di laurea del giovane Sereni, ma senza ironia e toni scanzonati. Eccoli i due poli fra cui potrebbe scorrere una delle poetiche più importanti del secondo dopoguerra, quella del luinese fatto prigioniero, militare ed esistenziale, in Algeria nel ’43.
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Nella lingua di Stella variabile rimangono ancora le scansioni ritmiche di marca modernista, come in Autostrada della Cisa: «di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità / tendo una mano. Mi ritorna vuota. / Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria» e qualche verso più sotto «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».
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La punteggiatura, quando c’è, segna pause forti rallentando il passo del discorso; il resto è in mano alla messa a capo, che scalpella i sintagmi. Tuttavia, lo stile di Stella Variabile è l’addio definitivo alle concentrazioni ermetiche, già annacquate in Diario d’Algeria e ancor più sciolte con Strumenti umani. Qui sta la stretta contemporaneità di Sereni, il cui versificare procede a ritmi sempre più irregolari, aperti e problematici. È la poliritmia al passo con le nostre vite ipermoderne.
Esemplare in questo senso il componimento Lavori in corso (ma lavori su cosa e su chi?): trenta versi retti da un punto di domanda e due punti fermi – giusto qualche pausa breve, con una virgola o un paio di parentesi. Il registro oscilla da un flusso del parlato, come se Sereni stesse sbobinando registrazioni raccolte dalla gente attorno a sé, fino a metafore ardite (queste sì, ermetiche).
« […] il palpebrìo del jet nel suo orgasmo di mutante
quando è ancora e non è più
un numero-luce scattato sul tabulatore di New York
o anche quei segni dipinti negli atrii dei formicai –
foglianti epidemie su pareti piastrelle carte da parati
che ci fanno le piccole svastiche qui nel Bronx […]»
Avvicinarsi alla fine significa, per Sereni, rimettere in discussione la già tentennante identità da poeta borghese. Quello fra letteratura e vita è forse un limite che si trasforma in frattura? Farsi prendere da slanci irrazionali è un attimo in questi casi, dunque bisogna chiarire la questione: non è un addio a tutto, non è nichilismo che riduce a zero ogni cosa. Stella variabile sostiene, anzi, la magia che le parole suggeriscono ma non sanno dire, e cioè la forza della materia e della vita. Siamo ben lontani da un’insensatezza generale. Così in Fissità: «Quell’uomo. / Rammenda reti, ritinteggia uno scafo. / Cose che io non so fare. Nominarle appena. / Da me a lui nient’altro: una fissità»; o in A Parma con A.B.: «Se dico finestra illuminata / se dico viale inzuppato di pioggia / è niente, nemmeno una canzone».
Un altro tema ricorrente, poi, è quello della morte e del legame coi defunti, motivo cardine da che letteratura è letteratura. C’entra il punto Fabio Pusterla nella prefazione all’edizione Einaudi, scrivendo, proprio in apertura, che la parola chiave è «catastrofe». Il sentore di un pericolo incombente si aggira scorrendo l’indice dei titoli, domina il campo semantico del vuoto e quando la natura è fra i personaggi di un componimento non lo è liricamente; o meglio, lo è ma velata – riprendendo ancora Pusterla – da una «luce in cammino».
Il paesaggio delle poesie è popolato da dubbi, interrogativi, ricordi discontinui. E Sereni non sprigiona questi problemi ritirandosi in un eremo solitario. Chiama in causa, anzi, la propria memoria, che è lo sguardo con cui guardare alla catastrofe: ed ecco la figlia Giovanna, lo stadio di San Siro assolato a fine luglio, il progresso, la guerra, la morte dell’amico Niccolò Gallo – tutto ciò che ha dato un valore alla vita di Sereni costretto ora a congedarsi dalla poesia.
Fra le liriche della quinta e ultima sezione della raccolta c’è La malattia dell’olmo. L’io poetante, passeggiando sulla riva di un fiume cittadino, osserva un olmo malato perdere le foglie: durante questa occasione quotidiana, sfumano lentamente i contorni dell’albero fino a diventare quelli della coscienza del poeta, che vive così un momento epifanico. È un appello per addormentarsi nel nome del «fuoco» della scrittura, del ricordo. Per quanto esile, e forse invisibile, al poeta allora rimane un’azione. Non è possibile concluderla, è tesa sempre verso il futuro, speranzosa: scrivere per indagare la vita, esprimerne i conflitti ideologici, consapevoli che «amare non sempre è conoscere». Salutando la letteratura, Vittorio Sereni – lo «scriba», come si definisce in Un posto di vacanza allontanandosi da ogni intellettualismo – salutandola non può fare a meno di scriverla.
[…] Guidami tu, stella variabile, fin che puoi…
-e il giorno fonde le rive in miele e oro
le rifonde in un buio oleoso fino al pullulare delle luci.
……………………………Scocca
da quel formicolio
un atomo ronzante, a colpo
sicuro mi centra
dove più punge e brucia.
Vienmi vicino, parlami, tenerezza,
– dico voltandomi a una vita fino a ieri a me prossima
oggi così lontana – scaccia
da me questo spino molesto,
la memoria:
non si sfama mai.
È fatto – mormora in risposta
nell’ultimo chiaro
quell’ombra – adesso dormi, riposa.
……………………………Mi hai
tolto l’aculeo, non
il suo fuoco – sospiro abbandonandomi a lei
in sogno con lei precipitando già.
La malattia dell’olmo, Stella Variabile (1981)
Per una lettura integrale della poesia La malattia dell’olmo cliccare qui
Andrea Piasentini
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