Lo scorso 8 giugno i ministri degli interni dell’Unione Europea, riunitisi a Lussemburgo, hanno trovato l’accordo sui migranti per approvare due pacchetti legislativi sulle procedure di frontiera e sulla gestione dell’asilo. Si tratta di un passo importante nell’impostazione di un più ampio Patto sulla migrazione che i paesi dell’Unione stanno discutendo ormai da anni, fino ad ora senza grandi risultati a causa delle forti divergenze interne e dei veti incrociati che accompagnano uno dei temi più caldi e sensibili, tanto per i governi che per l’opinione pubblica.
L’impossibile modifica degli accordi di Dublino
Questi accordi vanno letti come un progressivo tentativo di modifica del sistema di Dublino, un complesso di norme adottate per la prima volta nel 1990, vale a dire un’era geologica fa per quanto riguarda le questioni migratorie, e successivamente aggiornato solo nel 2013. Il suo scopo è quello di individuare un unico Stato membro dell’UE competente per il trattamento di una domanda di asilo attraverso una procedura che si basa su vari criteri, anche se la discriminante principale è costituita dall’essere oppure no il primo paese di ingresso di un richiedente. Ciò significa essenzialmente che un numero limitato di Stati membri è stato competente per il trattamento della maggior parte delle domande di asilo. Questo meccanismo ha portato a continue frizioni interne, innescando dinamiche che in più di un’occasione hanno avuto come vittime principali i migranti stessi. Spesso infatti i paesi di primo ingresso, soprattutto Spagna, Grecia ed Italia per aggirare questo complesso normativo e consapevoli di non essere la destinazione finale dei migranti, hanno lasciato che i migranti si muovessero liberamente e non tracciati sul territorio nel loro tentativo di spostarsi verso nord e di varcare le frontiere alpine o balcaniche, in modo che presentassero la loro richiesta formale in un paese diverso da quello dell’effettivo primo approdo.
Durante il vertice, nel quale alcuni paesi hanno sostenuto posizioni dure, i ministri competenti hanno trovato un primo accordo sui migranti che può essere letto come una parziale vittoria di chi si oppone proprio alla revisione di questo meccanismo: è stato proposto un meccanismo di solidarietà che prevede un numero minimo di 30mila ricollocamenti all’interno dell’Unione, ma non si tratta di un meccanismo vincolante. Gli stati che si oppongono al ricollocamento, soprattutto quelli dell’est, possono infatti ovviare con contributi finanziari o misure di solidarietà alternative, come l’invio di personale o misure incentrate sullo sviluppo di capacità amministrative e di gestione. Gli Stati membri hanno di fatto piena discrezionalità in merito al tipo di solidarietà con cui contribuiscono. Nessuno Stato membro sarà mai obbligato ad accettare ricollocazioni. I contributi finanziari andranno ad alimentare un fondo per la gestione delle emergenze e delle politiche migratorie e non costituiranno una compensazione concreta verso gli stati di primo approdo. Ai paesi di frontiera come l’Italia, la Grecia e la Spagna verrà poi chiesto appunto di rafforzare i controlli per evitare i cosiddetti movimenti secondari, cioè gli spostamenti dei richiedenti asilo verso i paesi del Nord. Nel documento non è sostanzialmente passata l’idea che potrebbe essere proprio questo obbligo, tra le tante dinamiche esacerbate da una situazione che continuiamo a chiamare emergenza ma che emergenza non è, che avrebbe portato forse le autorità greche pochi giorni fa a non prendersi carico del peschereccio partito dalla Libia e transitato di fronte alle coste elleniche prima di colare a picco carico di oltre 600 persone, tra le quali un centinaio circa di minori. Non è chiara la dinamica degli eventi, sulla quale si sta indagando ma diverse fonti smentirebbero la versione della guardia costiera greca che sostiene che il peschereccio fosse in movimento verso le coste italiane ed in una condizione di relativa sicurezza. Questa versione però cozza con le ricostruzioni di altre imbarcazioni presenti nell’area, le quali sostengono che il peschereccio avrebbe stazionato per ore nella stessa posizione prima di rovesciarsi con il suo carico di vite a bordo. La guardia costiera greca avrebbe sostanzialmente aspettato fino all’ultimo nella speranza che i migranti proseguissero il loro viaggio della speranza ed entrassero in acque che non fossero di competenza ellenica, per non farsi carico dei migranti in quanto paese di primo approdo. Se questa versione dovesse essere confermata non si tratterebbe certo di una novità, ma non è possibile politicamente né umanamente giustificare un comportamento di questo tipo, che potrebbe aver portato alla morto di centinaia di persone, soprattutto provenienti dal Pakistan ed imbarcatisi sulle coste di Misurata, in Libia, alla ricerca di una vita migliore.
È difficile affermare i nuovi pacchetti legislativi rappresentino una vittoria per chi da anni chiede un meccanismo più solidale e aperto ed il governo italiano si è dimostrato ancora una volta incapace di muoversi e di tessere alleanze a livello comunitario. Gli stati che per primi si sono opposti a questa revisione, e che nonostante tutto hanno comunque votato a sfavore non riuscendo però a respingere questo seppur debole tentativo, sono in gran parte alleati del più importante partito italiano, FDI. In ogni caso, prima che questa revisione diventi operativa bisognerà aspettare almeno la prima metà del 2024, data entro la quale anche il Parlamento dovrà esprimersi a riguardo.
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Tunisia come Libia e Turchia?
Tra le piccole “vittorie” che l’Italia ha ottenuto in questo Consiglio ve ne è una in particolare di cui non andare troppo fieri. L’Italia ha ottenuto che il documento non limitasse la capacità di stipulare accordi, anche separati, con paesi terzi. Come dichiarato al termine della seduta dal Ministro degli interni italiano Matteo Piantedosi, «volevamo che non passassero formulazioni dei testi che depotenziassero la possibilità di fare accordi con paesi terzi, sempre nell’attuazione della proiezione sulla dimensione esterna». Ciò significa che accordi come quello raggiunto con la Libia o con la Turchia (su spinta tedesca) continueranno ad essere una parte importante delle politiche migratorie del nostro paese. Prova ne è che proprio negli stessi giorni la Presidente Giorgia Meloni si è recata ben due volte a Tunisi, la prima volta da sola e la seconda accompagnata dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e dal premier olandese Mark Rutte. La stabilità del paese, che sta attraversando una crisi economica ed istituzionale, preoccupa non poco al di qua del Mediterraneo soprattutto per la questione migratoria oltre che energetica. La Tunisia è divenuto nell’ultimo anno il primo punto di partenza di coloro che provano ad attraversare il braccio di mare che separa l’Italia dal paese ed un collasso istituzionale potrebbe portare ad una situazione incontrollabile. Meloni, von der Leyen e Rutte hanno proposto al governo tunisino un aiuto finanziario da circa un miliardo di euro in aggiunta al prestito del Fondo Monetario Internazionale (FMI) da 2 miliardi di cui si parla da settimane, chiesto dalla Tunisia per provare a risolvere la sua complicata situazione dal punto di vista economico e sociale. In cambio degli aiuti, l’Unione Europea ha chiesto che la Tunisia applichi le riforme chiesta dall’FMI, ma soprattutto appunto che collabori maggiormente nel bloccare le partenze di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Italia via mare. Il presidente Saied non ha preso bene la proposta, dichiarando che non si piegherà ai diktat del FMI, probabilmente nell’ottica di spuntare migliori condizioni forte anche della leva negoziale rappresentata da un aiuto finanziario proveniente dai BRICS. Nel pacchetto europeo, che ammonta appunto ad un miliardo circa, 100 milioni sarebbero destinati esclusivamente alle autorità tunisine che si occupano di controllo delle frontiere: in sostanza, l’Unione Europea replicherebbe su scala minore gli accordi fatti negli anni scorsi con altri paesi di transito.
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