L’inquadratura si allarga su tre visi sorridenti illuminati da un riflesso dorato. È il 2013 e siamo a Cannes dove Abdellatif Kechiche, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux hanno appena ricevuto la Palma d’oro per il miglior film dell’anno. La vie d’Adèle (La vita di Adele) è premiata da Steven Spielberg per la «delicatezza» con cui la pellicola è stata capace di raccontare la storia d’amore omosessuale tra Adèle (Exarchopoulos), liceale sedicenne alla sua prima esperienza amorosa, ed Emma (Seydoux) studentessa all’Accademia di Belle Arti.
Il nome del regista franco-tunisino, nato a Tunisi nel 1960 ma emigrato in Francia all’età di sei anni, fa velocemente il giro del mondo. Il film esce nell’autunno successivo ma la versione integrale è distribuita soltanto in alcuni paesi, per altri vige la censura o peggio ancora la non uscita della pellicola. Gli incassi al botteghino sono alti, se ne discute sui blog e sui giornali, mentre sulle copertine dei rotocalchi compaiono bocche, corpi, sguardi maliziosi e ciuffi di capelli blu. Il mondo conosce così, dopo anni di attività e di successi, Abdellatif Kechiche, regista schivo e per taluni geniale. Ma proprio all’apice del successo, alcuni suoi stretti collaboratori, restati volutamente anonimi, lo accusano di violenze sul set.
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Lo scandalo nello star stytem
Kechiche viene denunciato presso il sindacato degli operatori cinematografici per aver violato le regole stabilite dai contratti lavorativi, per aver imposto riprese massacranti senza concedere le giuste pause, per prolungamento non concordato del contratto di lavoro, oltre che per alterchi e minacce verbali.
Poco dopo anche Léa Seydoux rincarerà la dose: malgrado il successo e le onorificenze, l’attrice sembra non aver perdonato il comportamento violento e a tratti ‘perverso’ del regista, accusandolo di averla spinta oltre certi limiti invalicabili, costringendola a sequenze filmiche infinite, a scene di sesso durate più di dieci ore e a violenze fisiche e psicologiche:
«Siamo arrivate a farci del male: finché non vedeva il sangue non era contento. Mi diceva di picchiarla forte, ancora più forte. E quando Adèle cercava di asciugarsi il muco dal naso che colava, lui mi intimava di baciarla e di leccarglielo via».
La Palma d’Oro si rivela un incubo: Kechiche è distrutto, si sente umiliato, ferito e incompreso, il successo tanto desiderato ha il sapore di una maledizione. Si difenderà come potrà rilasciando, nell’ottobre del 2013, una lunghissima intervista alla rivista Rue89 dove smonterà, una dopo l’altra, tutte le accuse, le calunnie messe in atto dallo star system, da giornali e giornalisti, nonché da alcuni vecchi collaboratori ritenuti semplicemente gelosi del suo successo.
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Chi è Abdellatif Kechiche?
Il regista muove i suoi primi passi artistici da ragazzo, nel sud della Francia, quando si iscrive al Conservatorio d’Arte Drammatica di Antibes: è un appassionato di teatro e vuole farne un mestiere. Comincia a recitare in qualche film dove la sua fisionomia meticcia gli permette di ottenere ruoli marginali ma carismatici, come nel caso di Thé à la menthe (Tè alla menta, 1985) di Abdelkrim Bahloul, dove interpreta un giovane immigrato tunisino. André Téchiné lo scrittura nel 1987 per Les innocents (Gli innocenti), ottenendo un ottimo successo di pubblico.
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Nel 1992, grazie a Bezness di Nouri Bouzid, Kechiche vince il premio per la Migliore Interpretazione Maschile al Festival di Namur. Nello stesso anno incontra Ghalya Lacroix che diverrà co-sceneggiatrice di tutti i suoi lavori futuri, nonché compagna di vita. Inizia dunque una nuova fase esistenziale e lavorativa che lo porta dietro la macchina da presa. Comprende così la sua vera vocazione: sarà un regista.
Abdellatif Kechiche: la carriera da regista
Ad oggi ha realizzato un totale di cinque film, che gli sono valsi l’etichetta di ‘genio’, cantastorie, poeta del quotidiano e altro ancora. La prima pellicola è del 2000: La faute à Voltaire (Tutta colpa di Voltaire). Dopo svariati tentativi andati a vuoto, Kechiche riesce a convincere il produttore Jean-François Lepetit della bontà del suo progetto. La fiducia nel giovane cineasta è ben riposta tanto che il film ottiene il Leone d’Oro a Venezia.
Nel 2003 è la volta de L’Esquive (La schivata), girato con pochi mezzi e con un gruppo di attori alle prime armi. La pellicola consacrerà come reginetta del grande schermo l’allora esordiente Sara Forestier, ottenendo ai César (gli Oscar francesi) tutto ciò che un film – e un giovane regista – possono sperare. L’Esquive si aggiudica quattro César: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura e Migliore attrice.
Nel 2007, con La graine et le mulet (Couscous), il film ottiene il Leone d’Argento a Venezia, nonché altri riconoscimenti alla cerimonia dei César, quali Miglior Attrice per Hafsia Herzi, Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura. Prima de La vie d’Adèle, Kechiche gira Venus noire (Venere Nera) nel 2011. Il film, nonostante le ottime qualità e la pregnanza delle vicende narrate, non ottiene il risultato sperato e non si aggiudicherà nessun premio.
Kechiche, il regista della quotidianità
Amato fino al midollo oppure incompreso, accusato di essere un violento o peggio, un banale imitatore di Maurice Pialat, Abdellatif Kechiche ha saputo, nell’arco degli ultimi quindici anni, far parlare di sé.
Il suo è un cinema semplice, a suo modo povero ma impreziosito dalla cura dei dettagli, dall’atipico uso del primo piano. L’insignificanza di certe conversazioni, la banalità dei gesti – mangiare, bere, dormire, fare l’amore, piangere – divengono, attraverso il suo occhio cinematografico, espressioni di un nuovo modo di raccontare. Le sue sono delle «fiabe umaniste» dove i personaggi, nei loro contorni sfumati, si dividono in buoni e cattivi.
Vi è intreccio, molto intrigo, ma anche zone morte, lunghe attenzioni alle futili attività del quotidiano. Ci s’attarda sulle conversazioni anche quando paiono esaurirsi in un nulla di fatto. Eppure il dettaglio è per Kechiche il centro di una riflessione più profonda: nella stanchezza, nella noia o attraverso la normalità di certe dinamiche, emerge l’uomo, la bellezza, lo squallore presente sulla terra. Così il corpo umano, che spesso viene spinto al suo parossismo attraverso la gestualità, la mimica, le secrezioni e i bisogni più naturali, altro non è che un involucro per raccontare altro, sondare l’«intrinseco» e restituirne così la sua veridicità.
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Il film della settimana: Couscous (La graine et le mulet) 2007
La graine et le mulet è un film corale, dalla trama apparentemente lineare, attraversato da un gioioso e intenso stuolo di personaggi, essenziali per comprendere le caratteristiche e lo stile del regista tunisino.
La semola e il muggine sono gli ingredienti dell’ottimo couscous preparato da Souad (Bouraouïa Marzouk), ex moglie di Slimane (Habib Boufares), magrebino sessantenne che lavora come manovale al porto di Sète. Trovandosi disoccupato, l’uomo decide di investire i pochi soldi a disposizione in un ex peschereccio ancorato al porto della città, con l’obiettivo di trasformarlo in un ristorante galleggiante, dove il punto di forza sarà proprio il couscous preparato dall’ex moglie. Per convincere il sindaco e l’amministrazione di Sète a fornirgli il via libera per la sua nuova avventura professionale, Slimane, con l’aiuto della figlioccia Rym (Hafsia Herzi), organizza sull’ex peschereccio, ristrutturato per l’occasione, una serata a base di semola e di muggine che, purtroppo, non andrà secondo i piani.
Il mondo selvaggio e i limiti dell’uomo
Per Cyril Béghin (Cahiers du Cinéma n°693, ottobre 2013) è attraverso il desiderio che si espleta la chiave del cinema di Abdellatif Kechiche. Nei suoi personaggi prevale una pulsionalità animale e al contempo umana, lirica e soave. La fame e la sete, il desiderio che diviene violento perché mostrato nella sua crudità, sono i mezzi fisici ed estetici per raccontare l’uomo, il suo universo quotidiano che è fatto di sporcizia e bassifondi, ma anche stupore, intelletto, natura, sconfinata tenerezza.
Un cinema che dice fino in fondo, senza scarti, senza censura. Quello messo in atto da Kechiche è un naturalismo quasi documentaristico che diviene poetico perché attraversato dalla compassione, intesa come com-partecipazione di tutti gli uomini al grande palcoscenico della vita.
«Ciò che voglio mostrare agli spettatori è un mondo selvaggio. Un mondo selvaggio che non vediamo, che siamo incapaci di scorgere, che forse non vedremo mai».
Quel mondo, quel suo mondo, è la terra su cui l’uomo combatte, vive e soffre. E quel selvaggio, indicibile e forse invisibile, è la temperatura dell’umano, i limiti, i difetti. Tutte le passioni.
di Ilaria Moretti
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