Storia di una reporter di guerra
«La paura arriva dopo». Marie Colvin, giornalista americana, rispondeva così a chi le chiedesse della paura nella sua attività di reporter di guerra. Una risposta spiazzante che, certo, lasciava cadere ogni dubbio sulla sua effettiva percezione del pericolo, ma che non lasciava spazio a esitazioni circa la grandezza della sua vocazione. Ed è alla sua vocazione che A private War, nelle sale dal 22 novembre, è votato: un film a tratti cieco e straordinariamente efficace.
A tratti cieco, perché la regia non riesce a vedere l’anima vera della giornalista americana sostando, talvolta crudelmente, sulla sua fragilità mentale e facendo percepire allo spettatore medio che la sua professionalità fosse il frutto di una mente malata.
Non si arriva, insomma, a far cogliere come la follia della Colvin fosse il semplice esito di una passione totalizzante e di una voglia di verità che ha poco a che fare con una malattia mentale e molto con una brama di verità divenuta scopo di una vita.
Ma A private war è anche straordinariamente efficace. Riesce, infatti, in poco meno di due ore, a condensare una personalità complessa raccontando alcune delle esperienza professionali più importanti della reporter, facendo appassionare anche chi non la conosceva alla sua storia.
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Una vita immersa nella guerra
Marie Colvin ha vissuto, più di ogni altro giornalista della sua generazione, i conflitti del nostro tempo, vivendoli in prima persona come reporter di guerra.
Voce profonda e benda sull’occhio ferito durante un reportage nello Sri Lanka. Capelli indomabili, l’occhio destro spalancato nella versione graziosa di un rabbioso Polifemo. Una rabbia che, però, era solo l’impeto iniziale di questa donna portentosa che, invece di ruggire il nome di chi l’aveva accecato, preferiva raccontarne la storia.
Oltre il conflitto in Sri Lanka, la Colvin ha anche seguito la guerra in Iraq e la guerra civile siriana, entrambe raccontate nel film a lei dedicato. Fu proprio nel corso dell’assedio di Homs, in Siria, che la Colvin ha perso la vita, nel 2012, rifiutandosi di lasciare la sua postazione pur di raccontare un’ultima storia, un’ultima vita che veniva portata via da quella che definiva il peggior conflitto cui avesse mai assistito.
La paura arriva dopo
A private war è certamente una testimonianza veloce che si focalizza sulla sua vita personale, a volte trascurando quella professionale: un elemento funzionale alla creazione di un film che attragga il grande pubblico, ma che forse tradisce un po’ la ricostruzione di una vita così come andrebbe fatta.
L’errore è la pretesa, un po’ tracotante, di sollevare la soggettiva ricostruzione di un lato più ambiguo a discapito dell’oggettiva grandezza dell’ambito professionale.
E se la Colvin non poteva essere degnamente raccontata senza mostrare il suo lato di donna oltre quello di reporter, è vero anche che, in alcuni casi, la verità di un fatto non può soccombere alla possibilità di un lato forse meno veritiero di quanto raccontato.
Resta, però, in A private war la volontà di testimoniare l’operato di una delle più grandi reporter della storia del giornalismo: una verità possente che fa scoprire a molti l’esistenza di Marie Colvin, la sua volontà di «far luce sull’umanità nei suoi estremi» e la sua paura che non c’era o, se c’era, arrivava sempre dopo.
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