di Nicole Erbetti e Camilla Volpe.
Sabato 24 ottobre, nell’ambito dell’iniziativa presso la Camera del Lavoro di Milano si è tenuto l’incontro col sagace e brillante scrittore Michele Serra (Roma, 10 luglio 1954), che ha presentato il suo nuovo romanzo Ognuno potrebbe. Su richiesta del relatore Marco Missiroli, autore di Atti osceni in luogo privato, Serra ha svelato i retroscena del suo nuovo libro: la scintilla, confessa, è scoccata dopo essere venuto in contatto con un “clima”, una realtà un po’ grigia di cui ha voluto raccontare. La malinconia di cui si veste il libro, però, si mescola alla comicità, tanto da poter parlare di malin-comicità. Per questo nel romanzo, che non ha davvero una trama ma piuttosto è composto da vari episodi leggibili in qualsiasi ordine, si contrappongono due personaggi: l’antropologo Giulio Maria, impegnato nello studio delle esultanze dei giocatori, e Ricky, che lo affianca. Se quest’ultimo è contraddistinto da un sano ottimismo, Giulio Maria ha un amaro sguardo comico-critico e il suo realismo stride con l’incoscienza un po’ infantile del suo compare, creando situazioni di un’ironia pirandelliana. Se l’imperatore Adriano, nel romanzo Memorie di Adriano (1951) di Marguerite Yourcenar, si sentiva fautore della bellezza del mondo, il povero Giulio si sente invece responsabile della sua bruttezza.
Serra ha rivelato che nel romanzo il cinghiale ha una grande valenza: Giulio Maria, come l’autore stesso – che ha ammesso di avere ancora un rapporto infantile e di meraviglia con le bestie selvagge, le quali dominano il suo mondo onirico – lo sogna ripetutamente. Esso è un’interferenza sia fausta sia infausta e ha in sé qualcosa di minaccioso, che però non viene svelato ma lasciato alla coscienza del lettore.
Come simbolo di modernità e declino l’autore ha in seguito citato la «sindrome dello sguardo basso», quella malattia che colpisce chiunque sia vittima di un autismo tecnologico che lo rende schiavo di quello che Serra chiama “egòfono”, ovvero lo smartphone. Nominandolo così, egli ravvisa un’interferenza grave tra la realtà materiale e la smaterializzazione della realtà stessa:
«Sono uno che chiama “egòfono” lo smartphone. È una traduzione letterale, gli dico, nient’altro che una traduzione letterale. Iphone, in italiano, si traduce in egòfono. Punto e basta. Non è vero, mi dice Ricky, e attacca una solfa interminabile sul fatto che la I di iPhone non sta davvero per “io”. Gli dico che è tutt’altro che assodato, che la I di iPhone non stia davvero per “io”, e comunque definisce perfettamente la sfera d’uso di quell’aggeggio, che è appunto l’io».
In un’altra scena irriverente che l’autore si è offerto di leggere ed esplicare, il povero Giulio Maria si ritrova vittima del suo navigatore satellitare – indiscusso sergente della strada che non ammette deviazioni al percorso indicato, o meglio ordinato – e delle rotonde, che ormai negli ultimi decenni hanno conquistato le strade e che costituiscono spesso il motivo di disorientamento da parte degli automobilisti:
«Le rotonde sono milioni, da queste parti. Produciamo rotonde. Di tutto il resto è come se si fosse perduto l’originale, la madreforma dalla quale le cose scaturiscono in file ordinate, con l’energia di un esercito in marcia. L’esercito delle merci si è fermato. […] Ma le rotonde no, loro continuano a nascere in misteriosa autonomia. La loro corolla discoidale sboccia ovunque come se quell’unica specie avesse capito come moltiplicarsi mentre intorno disseccano, uno dopo l’altro, tutti gli altri fiori».
Ma, per quanto cerchi di evitarlo, l’uomo moderno deve inesorabilmente subire le conseguenze delle trasformazioni che stanno avvenendo nel nostro secolo. Così Giulio Maria si ritrova ad affrontare una giungla di rotonde, un reticolo infernale in cui, sovrappensiero, si perde. Basta sbagliare di pochi gradi, per trovarsi su un altro meridiano. Serra ha commentato scherzando l’episodio: lui stesso conosce bene i vantaggi che queste infrastrutture possono comportare ma, ammette, la letteratura ha la sua arbitrarietà e si serve dei più svariati mezzi per raggiungere gli scopi che si è prefissa. E la rotonda, allora, diventa metafora di disorientamento, del senso di confusione di un antropologo che sembra quasi un inetto o un nuovo.
La vena particolarmente malinconica dello scrittore, vero e proprio “falegname delle parole”, pur essendo ben celata da una patina volutamente ironica, è facilmente rintracciabile nei suoi scritti: è questa la chiave di volta e interpretativa delle sue storie che il lettore deve cogliere. Togliendo il velo ironico, si scopre una realtà oltremodo tragica e problematica sulla quale si è portati a riflettere. A questo proposito, l’autore ha presentato un altro estratto del romanzo, a parer suo una delle scene madri, nel quale Giulio è nel locale della fidanzata e si ritrova a dover lavare una montagna di piatti a mano a causa del non funzionamento della lavastoviglie. Il protagonista, tutto concentrato sull’operazione, ha una folgorazione (molto simile all’epiphany dei protagonisti di Dubliners di James Joyce): in quel momento non è più preso da se stesso (l’attività che causa maggior preoccupazione per gli esseri umani ai giorni nostri) e, ovviamente, non avendo le mani libere, non può scattarsi un selfie – quale grande impedimento!
Lo stile del romanzo è confacente a quello arguto che Serra utilizza per comunicare: i periodi non sono eccessivamente lunghi, bensì lapidari e immediati. L’autore scocca le sue parole taglienti come se fossero frecce, le quali giungono veloci al bersaglio. Serra autore, dunque, non è molto distante dal Serra giornalista che scrive quotidianamente sull’irriverente L’amaca di Michele Serra per La Repubblica – imperdibile, da leggere ogni giorno quasi come fosse l’oroscopo, perché il suo modus scribendi è originale e inconfondibile, sia che stia scrivendo un libro, sia che stia scrivendo un articolo di giornale. Alla domanda di Marco Missiroli: «Si sente più giornalista o scrittore?», egli ha ammesso di non saper tracciare una linea di confine netta tra le sue due essenze. Nella vita ha scritto molto, sia per i telegiornali, sia per il teatro sia romanzi, ma il punto cardine dei suoi vari mestieri è sempre stato il dover riordinare le parole, che sia per il teatro o per la tv, poco importa.
In questa babele di pensieri, il titolo (che, come nel caso dei cinghiali, gli è apparso in sogno) sembrerebbe un’anticipazione di salvezza: il mondo è un posto terribile, ma ognuno potrebbe fare in modo di migliorarlo. Per l’autore non è proprio così: non c’è nessun mieloso lieto fine, il finale resta sospeso e aperto, così come deve essere.