Martedì 28 maggio Paolo Sorrentino ha tenuto una lezione presso il cinema milanese Anteo: l’incontro, mediato dal critico Maurizio Porro, seguiva la proiezione dell’ultima pellicola del regista, La grande bellezza. Nel film, il napoletano Jep Gambardella (un magistrale Toni Servillo) è un giornalista sessantacinquenne dalle movenze dandy che, trasferitosi a Roma da ragazzo, domina la movida sfrenata della capitale smascherando la vacuità dei suoi abitanti fantocci.
Reduce da una calda accoglienza alla 66ª edizione del Festival di Cannes, Sorrentino rompe il ghiaccio con il pubblico milanese ribadendo che il suo film non vuole essere un rifacimento de La dolce vita, capolavoro del maestro neorealista, (san) Federico Fellini. Gli echi felliniani che i critici si divertono così caparbiamente a far emergere lusingano Sorrentino, ma non sono che l’ipotetica cornice entro la quale La grande bellezza si presenta come l’originale e personalissimo tentativo del cineasta di scovare il sublime nella mostruosità dell’horror vacui della modernità, il cui bisogno ossessivo di lassativi riempitivi la fa da padrone in un presente che si trascina sempre uguale sin dagli anni ’70.
A guidarci in quella che sembra essere una lussuriosa bolgia dantesca c’è l’ironico Jep che, come un perfetto Virgilio, porta il pubblico ad incontrare le fiere selvagge che animano le feste romane. La borghesia raffigurata, di memoria proustiana, non è che un cumulo di fantasmi che sperano di arrestare la venuta della morte con un’iniezione di botulino in più. “Sono anni che nei miei film rifletto sulla solitudine: è perché non riesco a vedere altra condizione per l’uomo. Non vorrei deprimervi, ma la solitudine va a braccetto con la morte”.
Il viaggio sentimentale di Jep si svolge tra le strade di una Roma metafisica, inverosimilmente deserta, il cui fascino è sospeso tra una fugace alba dorata e una serie infinita di notti eterne. Eppure, dire che la bellezza del titolo sia quella delle rovine romane è troppo semplice, “altrimenti avrei inquadrato per due ore le cupole della città”. Invece, la grande bellezza di Sorrentino è anche quella che unisce il cocktail fatale di ripugnanza e attrazione che il vuoto dell’esistenza odierna esercita su ognuno di noi. Ecco spiegato il perché delle feste così esagerate rispetto alla realtà, il cui caleidoscopio di luci inebria Barbie rifatte e uomini panciuti che sembrano essere usciti dalle ville di Arcore: “tutti disprezzano quel mondo, a tutti fa ribrezzo, eppure chi riuscirebbe a rifiutare un invito ad un party così scatenato? Io no di certo”.
Ad una spettatrice che si confessa triste e spossata dopo la visione del film, Sorrentino risponde in due battute: “se si è intristita me ne dispiaccio, ma nella sala affianco c’è sicuramente un film più divertente”, a cui segue: “avete tutte le ragioni per essere tristi: il mio è un film che cerca la bellezza in ciò che è immorale, è il mio compito come regista, trovare la poesia negli anfratti della vita”. Così Jep, stanco di una vita in cui tutto era finta felicità e piacere sessuale, è alla ricerca della normalità. Finisce per riscoprire la meraviglia dell’imperfezione nel silenzio, allontanandosi dal blablabla che lo circonda per scoprire che per quanto faticoso, “vivere è la più grande bellezza”.
A chi, tra i presenti, si ostina a vedere nel film citazioni del cinema di Kubrick, Almodóvar, ed ovviamente Fellini, Sorrentino replica citando Renoir: “L’uomo non vuole conoscere, vuole riconoscere” aggiungendo, “il che è un peccato, perché conoscere è un’avventura meravigliosa”. Invita così a spogliarsi della necessità forzata di creare collegamenti improbabili tra pilastri vari della cinematografia mondiale e a godere di una storia che, proprio perché così semplice, passa quasi in secondo piano.
Tra battute di uno humour tutto napoletano e grande umiltà, il regista napoletano chiude l’incontro scusandosi per le semplici spiegazioni che hanno distrutto le arzigogolate domande del pubblico, e, rivolgendosi al mediatore con un sorriso, “io però te l’avevo detto che la dicitura lezione di cinema non mi si addice proprio: le loro domande erano molto più belle delle mie risposte, che erano ‘na vera schifezza”.
Alessandra Di Nunno
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