Roma, 1956. Il giudice lo guarda negli occhi e chiede: «Come ha cominciato con la cocaina?». L’imputato si prende un attimo, ci pensa. Dopotutto, anche nel vizio ci vuole una certa arte. Poi, con grande tranquillità, punta il dito contro i Carabinieri presenti in aula. «Sono stati loro, nel ‘17». Brusio tra gli astanti. L’imputato continua: «Ero caimano del Piave e ci voleva coraggio a fare certe azioni, di notte, strisciando, sotto le mitragliatrici nemiche. Ecco, se il coraggio non era abbastanza, c’era l’aiutino…». Alla sbarra c’è Max Mugnani, il cocainomane più “artista” della storia d’Italia.
Lo scandalo del Victor
Pochi mesi prima, era scoppiato un pasticciaccio in Via Veneto. Al bar Victor una retata dei Carabinieri aveva sgominato un imponente flusso di droga alimentato da una folta schiera di illustre figure della bella società romana. Uno dei soliti scandali che fanno tremare senatori e contesse, palazzinari e commendatori. Così, alla seconda sezione del tribunale di Roma si presentarono nobili più e meno fascisti, gerarchi decaduti, principi eleganti e imprenditori discutibili, tutti accomunati dal vizio della fiutata. Tutti amici di Max Mugnani, loro fornitore e compagno di serate balorde nella Roma della dolce vita.
Le origini di Max Mugnani
Mugnani a Roma ci era arrivato nel 1938, da Cento, dove era commerciante di stoffe e dove aveva fondato il fascio locale. Era nato nel 1897 e aveva fatto la prima guerra mondiale (diceva, ma non è difficile credergli) da eroe. Poi, come molti della sua generazione, lo sbandamento, l’incapacità di tornare a una vita normale. Quindi la frequentazione delle squadracce di Dino Grandi, poi il fascismo anarchico e picchiatore. Nel fascismo romagnolo era ben accolto, soprattutto per i bigliettini da mille che elargiva (suo padre aveva il portafogli facile) a finanziamento delle serate bagorde tra casini e osterie.
L’istituzionalizzazione
Dopo la marcia su Roma, molti misero su famiglia, diventarono ministri e sottosegretari, anche se pochissimi disertarono la polverina, amata da tanti all’epoca – uno su tutti, D’Annunzio. Mugnani, però, era di un’altra scuola. I ministeri non gli interessavano e l’unica famiglia che provò a formare fu un matrimonio, nel 1925, con la ricca latifondista parmigiana Amalia Musi, che abbandonò puntualmente una volta acciuffata la generosa dote. Poi, nel pieno del regime, venne inserito nelle liste dei “pericolosi per la sicurezza dello Stato”, ma fu proprio durante il regime che le sue gesta passarono alla storia.
Il farmacista foggiano
Quando un Max Mugnani particolarmente su di giri offrì pubblicamente, alla mostra del cinema di Venezia, un cartoccio di cocaina alla regina Guglielmina d’Olanda, Mussolini decise che doveva sbarazzarsi, almeno per un po’, del povero cocainomane, il quale venne quindi spedito al confino in un paesino in provincia di Foggia. Pochi mesi dopo arrivò sulla scrivania del duce un nuovo dossier “Mugnani”. Mussolini sbuffò, mise gli occhiali e lesse il dettagliato rapporto dei ficcanaso dell’OVRA. Ne aveva combinata un’altra: si era fatto amico del farmacista che gli procurava la cocaina, per poi convertire il segretario del fascio, la maestra, il farmacista stesso e, qualcuno dice, anche il parroco, al culto della “bianca”. Gli informatori lo pregavano di trasferirlo via di lì.
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Max Mugnani a Novara
E fu così che Mugnani tornò a Roma, nella sua residenza all’Hotel Excelsior, dove accadde un altro fatto curioso. Stando a quanto riportò Andreotti in un’intervista, Mugnani coinvolse in un suo drug party il ministro degli esteri giapponese in visita a Roma, imbottendolo di cocaina al punto che furono costretti a rimandare l’incontro con Mussolini. Qualche anno dopo, durante la RSI, Max Mugnani venne nominato “capo provincia” di Novara. Si narra che il suo primo provvedimento sia stato volto alla tutela della morale pubblica: tutti i farmacisti dovevano consegnare alle autorità gli stupefacenti in loro possesso. Gli stupefacenti sequestrati fecero la fine che ben possiamo immaginare e, appena le sue narici furono sazie, Mugnani scappò, sentendo la brutta aria che tirava.
L’amico degli Alleati
Mugnani ricomparve all’improvviso quando gli alleati presero Roma. Nessuno sa come, ma successe che, da grande viveur che era, riuscì a riciclarsi con gli americani e divenne loro amico e frequentatore. E si dice che fu proprio in virtù di quest’amicizia che un colonnello americano si confidò con lui: «Caro Max, non troviamo nessuno a cui affidare il magazzino di narcotici della V Armata, nessun esperto». A Mugnani probabilmente brillarono gli occhi, quasi commosso da quella manna bianca che scendeva dal cielo. Subito tirò fuori il tesserino della questura di tossicomane abituale e convinse l’ingenuo americano di avere a che fare con un tossicologo. Così, a Max Mugnani, al più grande cocainomane d’Italia, venne affidata la gestione dei narcotici dell’esercito americano.
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L’epilogo
Max Mugnani entrò poi nei circoli della bella vita romana, e tra alti e bassi, frequentazioni più o meno raccomandabili, giunse all’anno 1977, quando morì, dopo chili di cocaina aspirati e dopo migliaia di stratagemmi e bugie per rimanere a galla, giorno dopo giorno.
Max Mugnani: un simbolo, un artista
Non tutti gli artisti fanno dei capolavori, alcuni sono dei capolavori e rendono la propria vita un’opera d’arte, in grado di rappresentare un momento della storia e della società, un frammento dell’animo umano. E, in questo senso, Max Mugnani fu un artista. Non certo un santo, ma un artista. Una maschera parodistica e grottesca che rappresentò con la sua vita sporca, opportunista e malandata, l’Italia e gli italiani di una certa generazione, disillusa, anarchica e libertina, provinciale, sanguigna, sopra le righe, buffona, farsesca, ma vera e sincera, fantasiosa e piena dell’arte più misera, varia e quotidiana – quella d’arrangiarsi.
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