[…] confesserò in pubblico tutti i difetti della mia natura e metterò a nudo sotto gli occhi di tutti le mie avventatezze, contraddizioni e stupidaggini. Non mi state a sentire, dirò loro, finché non sarò diventato uguale al più meschino di voi e non sarò ancora più meschino di lui; rizzatevi contro la verità, finché potete, per nausea contro colui che ne è il propugnatore. Io sarò il vostro seduttore e ingannatore se scorgerete ancora in me la minima luce di rispettabilità e di dignità.
F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra (1886)
A leggere queste parole senza l’aiuto dell’indicazione bibliografica, perfino il lettore più attento potrebbe indugiare. Perché questo breve passo avrebbe tutto il diritto di rivendicare una paternità diversa da quella nietzschiana, qualificandosi a ragione come una sorta di testamento metodologico del cineasta newyorkese Woody Allen.
Il pirronismo di Allen
Forse a voler proporre un’insolita parentela ideologica tra Allen e lo scettico Pirrone de Il Viandante e la sua ombra, non si cadrebbe in errore. Nel famoso dialogo dell’aforisma 213, Il fanatico della diffidenza e la sua garanzia, Pirrone è alle prese con un vecchio d’indole socratica che lo incalza affinché dia prova della sua fama di sapiente; ma nessuna teoria, nessuna illuminante dottrina verrà rivelata. Ciò che Pirrone si ripromette d’insegnare è piuttosto l’arte della diffidenza, una messa in crisi radicale di tutte le presunte verità, ma per farlo ha prima bisogno di scrollarsi di dosso la sua stessa fama, di confessare la sua pochezza di uomo, di smantellare la fiducia nelle proprie e nelle altrui parole fino alle estreme conseguenze: l’impossibilità che qualsiasi discorso possa pretendere di esser vero. E allora? E allora se niente di ciò che può esser detto è passibile di verità, tanto vale tacere e, evitando di prendere troppo sul serio il proprio silenzio, riderne. «Oh amico! Tacere e ridere – è ora questa tutta la tua filosofia?», domanda il vecchio alla fine del dialogo; risponde Pirrone «Non sarebbe la peggiore!» [1]
La parola e il non-senso nella filosofia di Woody Allen
Seppur in una veste differente, questa è l’operazione intellettuale di fondo sottesa all’intera produzione alleniana, tradotta in un equilibrio sottile tra un incurabile disfattismo esistenziale e l’inesauribile capacità di sdrammatizzare, di sapersi prendere in giro, di ridere. Si sgombri immediatamente il campo da equivoci, per quanto profonde siano le analogie tra il Pirrone di Nietzsche e Allen, risulta evidente l’impossibilità del secondo di abbracciare il tacere del primo. Al silenzio del filosofo, il cineasta sostituisce la parola, o meglio, le parole, i farfuglii, che come teste d’Idra mozzate si moltiplicano e si aggrovigliano in una matassa in cui è arduo districarsi, in cui il senso viene continuamente disatteso, rimandato, tradito. Ed è proprio nel proliferare incontrollato dei periodi – biascicati o a malapena accennati – che viene denunciata quella stessa difficoltà di attingere ad un senso ultimo delle cose, carpendo uno dei tratti più rappresentativi del XX secolo.
Nuovi tratti della modernità
D’altronde – come dimostra apostrofando Socrate, Nietzsche e Freud in un memorabile monologo di Hannah e le sue sorelle, «milioni di libri scritti su ogni concepibile argomento da tutte queste grandi menti e alla fine nessuno sa niente più di me sui grandi misteri della vita» – Woody Allen ha avuto la lucidità di cogliere e di portare in scena tutta la fragilità dell’uomo moderno, ed è evidente che uno degli ingredienti più caratteristici di questa modernità sia un costitutivo sentimento di insicurezza. Assistiamo puntualmente nei suoi film alla rappresentazione di soggetti dinamici, sempre affannati nella ricerca di un ruolo e di un riconoscimento all’interno dell’ordine sociale a cui di fatto appartengono, fini conoscitori della psicanalisi e delle nuove teorie psicologiche più in voga ma sistematicamente incapaci di analizzare se stessi. La sensazione è quella di aver di fronte un brillante …