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Bernard-Marie Koltès per raccontare la solitudine dei campi di cotone

Il testo di Bernard-Marie Koltès è in scena fino al 4 dicembre, in uno spettacolo in cui il desiderio gioca un ruolo emotivo molto forte.

3 minuti di lettura

Il movimento della solitudine nelle parole di Bernard-Marie Koltès

Se la volontà è sottomessa alla logica dell’oggetto, tale per cui chi vuole, vuole necessariamente qualcosa, il desiderio sembra rispondere solamente al soggetto che compie l’azione del desiderare. I desiderantes erano i soldati romani, che la notte, sul campo di battaglia, contemplavano la volta celeste, affidando alle stelle speranze, paure e dolori, per poi riabbassare inevitabilmente lo sguardo, allontanandolo dalle stelle (de-sidera).

Il desiderio è moto dello sguardo – e del cuore – di chi alza gli occhi al cielo e poi se ne distacca sospirando. Chi desidera percorre la traiettoria che unisce il cielo infinito e l’abisso che ognuno avverte come indefinitamente incolmabile, il desiderio è il movimento solitario della presa di consapevolezza di una mancanza costitutiva ed essenziale.

La solitudine co-appartiene al desiderare in quanto ne costituisce il presupposto: il desiderio è la risposta di chi osa confrontarsi con la propria solitudine, mettendola a fuoco, sotto il fascio luminoso delle stelle. Desiderare significa prestare ascolto alla propria solitudine, tentarne un dialogo, nello spazio della mancanza che si vive: è una sfida ardua che richiede pazienza, come capacità di patire, di essere suscettibili dei sentimenti, di mostrarsi inermi e indifesi, senza barricarsi dietro l’apparente sicurezza, quella maschera di formalità ineccepibile che si indossa d’abitudine, proprio come un abito per ripararsi dal giudizio logorante degli altri.

La necessità del desiderio per Bernard-Marie Koltès

Bernard-Marie Koltès

Sottraendosi al giudizio e donandosi all’immaginazione, l’arte concede la capacità di essere pazienti, e nel gioco teatrale tale evenienza prende forma e atto nella concretezza della scena: così grazie alla potenza esacerbante delle parole di Bernard-Marie Koltès, la consapevolezza di sapersi mancanti come possibilità di essere autentici desiderantes, affetti dalla solitudine, sebbene costantemente tra gli altri, diventa dialogica nello spettacolo Nella solitudine dei campi di cotone, dal 10 novembre al 4 dicembre in scena al Teatro-i con una nuova produzione.

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Il regista Renzo Martinelli con la dramaturg Francesca Garolla, sceglie il mistero poetico del testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès per rispondere a un’urgenza: dal punto di vista dell’attuale cambiamento socio-economico, interrogare l’universalità della natura umana, scoprendola nella nudità del vuoto che la logora.

L’essere engagé di Koltès costituisce il presupposto per una drammaturgia che sia sempre attuale senza la necessità di subire un’attualizzazione: la pienezza dello stile recitativo di Giuseppe Sartori e Cristian Giammarini rappresenta con efficacia due ruoli umani universalmente validi.

Lo spazio dell’incontro

L’incontro tra un dealer e un potenziale compratore diventa l’occasione per centrare e mettere a fuoco la solitudine umana, come possibilità di guardare un orizzonte, da cui scaturisca il dialogo. Per Bernard-Marie Koltès La presenza dell’altro prende forma nell’ascolto, come luogo di un ineluttabile accadimento, nella pienezza del nulla totale.

Lo spazio del dialogo con la solitudine prende forma con una parola musicale, a tratti poetica, testimone di uno stile all’altezza della domanda a cui dà voce.

Superando la dicotomia tra vittima e carnefice, l’incontro tra i due uomini approda nello spazio dialettico che apre nuove prospettive alla solitudine, ben diversa dalle ristrettezze, dai confini di chi è isolato.

Aprirsi alla mancanza del desiderio

Il desiderio, la mancanza di entrambi i protagonisti, giocano a una temperatura emotiva sempre più alta: il nulla totalizzante della dimensione spaziotemporale dell’incontro libera il desiderio da qualsiasi oggettivazione. L’indefinito della mancanza si caratterizza del ritmo sempre più frenetico e incalzante di chi casualmente si incontra per legarsi indissolubilmente in un vincolo sempre forte che mette alle strette l’azione drammatica, lasciandola libera di dipanarsi lungo il filo di un discorso sempre più acuto e tagliente.

La verbalità è il luogo dove la brutale forza della natura umana prende forma: con acume e poesia, il desiderio si mette a nudo nelle parole dei due uomini, valicando la contingenza del personaggio teatrale per mettere in scena due ruoli in relazione perché soli, che seguendo l’andamento dialogante rischiano di sprofondare nell’abisso, ma, forse, si salvano, perché continuano a camminare, come se l’unico equilibro possibile fosse la dinamica dello scambio verbale.

Contro l’imperversare di una mancanza logorante, la salvezza non è una risposta da trovare, una forma da conferire a un capriccio, un oggetto che si vuole, bensì una domanda che apre all’altro, alla solitudine come un nuovo orizzonte da indagare per riscoprirsi.

 

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Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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