Da settembre, l’Europa sta provando, finora con scarso successo, ad affrontare una crisi energetica tra le peggiori degli ultimi decenni. I governi non sono stati certo costretti a intraprendere azioni drastiche come durante la crisi dell’OPEC agli inizi degli anni ‘70, quando per esempio, in Italia, il governo Rumor introdusse fortissime limitazioni come il divieto di circolare in auto la domenica, la fine anticipata dei programmi televisivi e la riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale, ma gli effetti di ciò che stiamo vivendo sono molteplici, sia sul piano nazionale che internazionale.
Gli effetti della crisi energetica
Con l’arrivo dell’autunno, il prezzo del gas naturale, che i paesi europei importano per oltre il 40% dalla Russia, ha subito un aumento di oltre il 400% dall’inizio dell’anno, creando un effetto a catena che ha portato all’aumento inevitabile delle bollette energetiche per i privati e dei costi per le aziende, considerando anche l’aumento dei prezzi per l’approvvigionamento delle principali materie prime necessarie all’industria. Si stima che i rincari per la famiglia media possano raggiungere, solo considerando il gas, un +14% rispetto ai mesi precedenti, in un periodo di fragile ripresa economica. Come conseguenza, quasi tutti i paesi europei sono corsi ai ripari, cercando da una parte di calmierare, con un intervento pubblico, gli aumenti che inevitabilmente peseranno sui cittadini, e dall’altra di agire a livello europeo per far sì che una situazione simile non si ripresenti.
Le soluzioni emerse sono deboli ed emergenziali, come è inevitabile che sia, ma come si è giunti a questo?
Le cause della crisi energetica
Si può dire che le ragioni di questa crisi energetica siano fondamentalmente da ricondurre a due cause principali: la prima è legata in qualche modo alla pandemia che ci stiamo lasciando alle spalle ed alla forte richiesta energetica di economie che ora corrono per recuperare il tempo perduto, mentre la seconda ha ragioni prettamente geopolitiche, e dimostra tutta la fragilità, e quindi la vulnerabilità della politica energetica europea. Le scorte europee di gas, come detto, dipendono principalmente dalla Russia, in un rapporto che presenta alcune zone grigie molto rilevanti: in primo luogo, il paese guidato da Putin fonda la sua economia sulle risorse energetiche fossili che il suo immenso territorio gli garantisce. Vi sono infatti immensi giacimenti di gas naturale e petrolio che, considerata la scarsa popolazione russa sempre in relazione al territorio, vengono estratti in forte eccedenza per poi essere immessi sul mercato internazionale soprattutto attraverso il mercato europeo, storico acquirente da questo punto di vista, e da alcuni anni anche verso il nuovo e vorace mercato cinese. Con la pandemia il colosso del gas russo Gazprom, di proprietà statale, ha subito un calo del fatturato pari a circa 700 miliardi di rubli (circa 8,5 miliardi di euro) provocando un ammanco di risorse considerevole nel bilancio della Federazione, ed ora sta cercando di recuperare, molto schematicamente, le perdite in due modi.
Per quanto riguarda il mercato europeo, sono state tagliate le forniture standard riducendo i flussi al minimo consentito dai contratti energetici che legano i paesi, e dall’altro, a fronte di un nuovo record per quanto riguarda i valori assoluti di estrazione, ha stretto nuovi accordi per entrare con forza sul mercato cinese attraverso il gasdotto “Power of Siberia”. In termini assoluti, la Cina ha più che decuplicato la propria quota di gas russo negli ultimi due anni sforando addirittura gli obblighi contrattuali. È un fatto importante, che va letto nel più ampio contesto del riavvicinamento in atto tra le due potenze in ottica anti-americana ed anti-occidentale più in generale, come dimostrato anche dalle recenti esercitazioni militari congiunte a largo di Vladivostok. Probabilmente si tratta anche di una deriva di cui la Russia farebbe volentieri a meno, se solo da Washington qualcuno lasciasse intravedere uno spiraglio di luce. A queste considerazioni va aggiunto anche il fatto che il comparto relativo ad eolico e solare in nord Europa ha subito un calo dovuto alle condizioni metereologiche, costringendo i paesi a sopperire ai megawatt mancanti.
Equilibri e disequilibri internazionali
Questa crisi ha portato alcune precise conseguenze, oltre chiaramente a quelle puramente legate ai prezzi, sul tavolo dei leaders europei: in primo luogo è necessaria una riflessione approfondita sulle politiche energetiche europee, soprattutto su quelle “green” di nuova generazione, ed in secondo luogo, come per altro si è discusso già durante il recente G20 di Roma, va aperto un dibattito sulla necessità di creare un politica energetica comune che assicuri il medesimo trattamento per tutti gli stati. Si tratta di temi estremamente delicati, ma questa crisi ha lanciato segnali importanti: da un parte la Francia è riuscita a mitigare le conseguenze attraverso un’autonomia energetica impossibile per gli altri paesi, garantita in parte dai forti investimenti che il paese ha fatto sul nucleare di nuova generazione e sui quali Macron sembra puntare in vista della campagna elettorale ormai alle porte, dall’altra la Germania che, nonostante la fantascientifica cifra di oltre 600 miliardi di euro investiti in fonti rinnovabili negli ultimi dieci anni, si è trovata di fronte a consistenti problemi di approvvigionamento e ha dovuto incrementare, ancora una volta, la quota di energia derivante da combustibili fossili, segnatamente il carbone. Lo stesso carbone che dovrebbe essere morto nella narrativa riguardante la transizione ecologica.
Leggi anche:
L’illusione europea di poter restare in mezzo al guado
Il caso tedesco
Per fare un esempio, la Germania conta ancora sui combustibili fossili per soddisfare oltre il 55% del fabbisogno energetico e ha dovuto incrementarne l’uso, di fronte all’aumento della domanda aggregata e alla diminuzione delle forniture di gas, del 21%. Si parla di percentuali che dimostrano quanto sia ancora prematuro fare previsioni sul futuro senza rassicurazioni adeguate riguardo l’effettiva capacità delle rinnovabili di essere una fonte affidabile e sufficientemente elastica nel breve termine. Altro punto critico poi per la politica tedesca è il gasdotto Nordstream 2, che è stato completato dopo anni di contrasti soprattutto con le amministrazioni americane, ma che costituisce ora una contraddizione in termini per quella che sembra essere la coalizione che guiderà il paese nei prossimi anni, della quale sicuramente faranno parte i Verdi, che tanto si erano opposti alla realizzazione dello stesso.
Leggi anche:
La SPD vince le elezioni in Germania. E ora che succede?
La Germania, semplificando un argomento che resta alquanto complesso ma che merita di essere trattato anche dalla stampa in modo critico, ha installato rinnovabili che in teoria coprono una percentuale estremamente rilevante del fabbisogno energetico nazionale, ma brucia comunque una quantità enorme di carbone per colmare i vuoti lasciati, giganteschi, di quando sole e vento fanno mancare il loro apporto. Quando invece questi contribuiscono, la rete è inondata di energia che spinge i prezzi in negativo, obbligando lo stato a intervenire sul mercato. Si tratta di un problema rilevante, che insieme ad altri fattori si traduce in una delle bollette energetiche più care al mondo, e tra le più inquinanti. Alcuni analisti sostengono inoltre che le recenti aperture e concessioni della cancelliera Merkel nei confronti della Polonia (in relazione alle recenti diatribe sul primato europeo o nazionale in ambito legislativo) siano da leggere anche in chiave energetica, come una sorta di contraltare alla contrarietà polacca proprio al nuovo gasdotto, che ridurrà notevolmente le entrate economiche derivanti dai flussi di gas che ora passano su suolo polacco e che inevitabilmente si ridurranno.
La fragilità del sistema energetico europeo
Il tema dell’indipendenza energetica non a caso è stato sollevato con forza dall’unico paese europeo che ancora cerca di proiettare sé stesso fuori dal continente a livello di influenza, l’unica potenza nucleare europea e l’unico paese che sembra spingere per adottare una difesa comune, ovvero la Francia. Parigi è infatti l’unica capitale Europea che non ha scelto di smantellare le centrali nucleari dopo il disastro di Černobyl’, ed anzi ha in programma importanti investimenti in futuro su questa tecnologia che le permette, inquinando relativamente poco rispetto ai comuni combustibili fossili, di guardare ai possibili shock internazionali con un tranquillità impossibile per gli altri paesi. Bisogna poi considerare che l’altro grande esportatore di gas verso l’Europa è l’Algeria, non esattamente un partner stabile e sul quale si possa fare eccessivo affidamento. Finora ha sempre rispettato i contratti sulle forniture, ma l’instabilità regionale è sempre un tema presente sullo sfondo.
Leggi anche:
Giustizia climatica. Cronaca di una protesta
Il tema energetico è quindi estremamente importante e complesso, intrecciando considerazioni di natura prettamente economica a temi geopolitici. La Russia ha annunciato che incrementerà le forniture solo a partire dalla fine del mese di Novembre, mettendo ancora una volta a nudo le fragilità di un continente che è costretto, per natura geografica (la maledizione delle materie prime è argomento sconosciuto alle nostre latitudini) ed anche per scelte politiche, ad adattarsi al volere di stati esteri, i cui interessi non sempre coincidono con i nostri.
* * *
Sì, lo sappiamo. Te lo chiedono già tutti. Però è vero: anche se tu lo leggi gratis, fare un giornale online ha dei costi. Frammenti è una rivista edita da una piccola associazione culturale no profit, Il fascino degli intellettuali. Non abbiamo grandi editori alle spalle, anzi: siamo noi i nostri editori. Per questo te lo chiediamo: se ti piace quello che facciamo, puoi sostenerci con una donazione. Libera, a tua scelta. Anche solo 1 euro per noi è molto importante, per poter continuare a essere indipendenti, con la sola forza dei nostri lettori alle spalle.