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In memoria di David Foster Wallace:
ogni storia d’amore è uno “scherzo infinito”

4 minuti di lettura

di Mattia Marasti 

«La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi».
D. F. Wallace, Infinite Jest

o-DAVID-FOSTER-WALLACE-facebookIn questi anni, gli Stati Uniti d’America hanno prodotto un numero incredibile di scrittori strepitosi. Don DeLillo e Thomas Pynchon, John Barth, Philip Roth, Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk, Raymond Carver, Donna Tartt, Jonathan Franzen, David Means, Aimee Beender, John Cheever. Tutta gente che sa come si scrive un romanzo o un racconto.

E poi c’è David Foster Wallace.

Non è un caso la sua esclusione dalla lista. È inutile negarcelo, David Foster Wallace non era uno “scrittore”. Se gli altri “scrittori” hanno comunque un distacco emotivo dal lettore, sono come dei maestri che si siedono alla cattedra e parlano e parlano, con David le cose vanno diversamente.

Quando voi leggete un libro di David Foster Wallace, quando voi leggete di Hal Incandenza, di Leonore Beadsmen, quando voi leggete di Lyndon Johnson che si scopre omosessuale, non state leggendo di qualcun altro: in David Foster Wallace tutto è la trascrizione di quel campo incredibilmente ampio e inconoscibile che è l’Io. E il suo stile lo dimostra: non è uno stile chiaro, preciso, raffinato come quello di Ellis, e nemmeno retorico e classico come l’amico Jonathan Franzen, il suo stile è tremendamente sincero, lui ti vomita addosso ciò che vuole dirti, con frasi affondate nella pagina che magari vanno avanti anche per venti righe, piene di avverbi e punteggiatura, passando da uno stile medio a quello dei bassi fondi e dei drogati, finendo poi a parlare di qualcosa tipo la sintesi hegeliana.

fraQuel genio critico che fu Michail Michajlovič Bachtin intende il romanzo come un dialogo e sul retro de La Scopa del Sistema Jonathan Franzen scrive «una via di fuga dalla solitudine». Nessuna descrizione fu più azzeccata. Perché effettivamente, quando state leggendo un romanzo o un racconto di David Foster Wallace, avete deciso di sedervi in uno di quei bar squallidi a bere Coca Cola con ghiaccio e limone per parlare con un vostro amico, quel vostro amico un po’ problematico e strano, che ha i voti massimi in ogni materia, quello che però allo stesso tempo può parlarti per ore di videogiochi e di ragazze che gli piacciono. E avete deciso di starlo ad ascoltare anche se certe volte proprio non capite dove voglia arrivare eppure, questo suo manierismo, questa sua voglia prorompente di narrare vi dà quel sollievo di non essere più soli, emarginati dal mondo, sputati fuori come chewing gum nel cestino della vostra terribile classe del liceo.

Questo vostro amico problematico è lì con voi quando entrate nel locale il sabato sera ed è pieno di gente e la ragazza con cui ci state provando da mesi, ma che vi degna solo qualche volta di una risposta, è lì seduta e voi non ve lo aspettavate e allora il vostro cuore comincia a battere a 160 battiti al secondo e cominciate a sudare freddo e allora uscite dal locale, e lui è lì che si è acceso una sigaretta e vi sta battendo una mano sulla spalla dicendo che ora andrete dentro, vi farete una birra e poi finirete a parlare di qualcosa che suona come «la teoria della rappresentazione del linguaggio in Ludwing Wittgenstein» oppure «come la società americana sia in realtà invasa dal mercato e dagli sponsor e dalla competizione». O quando ce l’avete con qualcuno che vorreste prendere a pugni dalla rabbia, o quando le cose semplicemente non vanno.

bret ellQuello che dice Bret Easton Ellis potrebbe sembrare vero. In questi anni, il nome David Foster Wallace è diventato una sorta di logo. Si è voluto trasformare David Foster Wallace in un fenomeno sociale, quando in realtà, come dicevamo prima, il suo è un fenomeno personale, un rapporto, neanche di subordinazione, tra l’autore e il lettore. Ci sono scrittori, e forse Ellis è tra questi, che hanno rappresentato un fenomeno generazionale. Uno di questi esempi è Meno di Zero, debutto di Ellis, che è forse il miglior libro americano dagli anni ’80 in poi, o Fight Club di Palahniuk. È come se l’autore fosse la cima di una montagna e sotto ci fossero i suoi seguaci e quella generazione che tende a rappresentare, o quella classe. David invece ha un rapporto puramente personale. Non può esistere un logo David Foster Wallace perché sarebbe un prodotto di tipo artigianale, un qualcosa di privato e circoscritto all’Io non dell’autore, ma del lettore.

infinite-jestÈ davvero un peccato che David ci abbia lasciato solo due romanzi conclusi. Certo, i suoi racconti, ad esclusione di quelli di Oblio, sono piccole perle, che scavano a fondo nell’animo umano, ma c’è qualcosa di più nei romanzi, c’è quel sentimento di tuffarsi in mezzo all’oceano, destinati a perdersi e poi, quando arriva la notte e voi siete sicuri che morirete sul fondo del mare, con il vostro tessuto epiteliale che comincerà a sfaldarsi per via dell’acqua ecco, proprio a quel punto, vedete il faro. Perdersi è forse il verbo riflessivo che meglio descrive i suo romanzi: Infinite Jest, un mattone di 1200 pagine e rotte con tanto di note che parla della dipendenza e di quell’interiorizzazione del progresso che ci spinge a far sempre di più fino a che non ti senti uno schifo e allora ecco che subentrano le droghe, prese come caramelle; e poi La Scopa del Sistema, un romanzo di pura ispirazione barthiana, con giochi di parole post moderni e Wittgenstein.

Oggi, 12 settembre, sono 7 anni da quando David Foster Wallace ha deciso di impiccarsi (il suicidio più preannunciato della storia della letteratura, sempre per quella questione dell’Io). Gli ultimi giorni David li ha passati nella più cupa depressione, mentre Jonathan Franzen cercava  di chiamarlo, di tirarlo su, di dire «è solo una crisi, ne hai passate tante». E invece quella sarebbe stata la crisi finale.
Purtroppo.

Quello che possiamo fare, noi, è leggere i suoi libri e stare ad ascoltare questo amico un po’ pazzoide, un po’ romantico.

fra wa

 

 

 

 

 

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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