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cos'ha detto barbara palombelli sui femminicidi

Sui femminicidi non è lecito “farsi domande”, cara Palombelli

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Reduce da un monologo «sulle e per le donne» a metà tra l’anacronistico e l’autoreferenziale condotto sul palco dell’Ariston di Sanremo e in Eurovisione, la giornalista Barbara Palombelli torna a far parlare di sé per le recenti dichiarazioni rilasciate in diretta sul tema dei femminicidi

Il siparietto che va in scena in un banale giovedì di settembre a Forum è il solito tagliato e cucito dall’alta sartoria dello share, con qualche picco di pathos qua e là tanto caro alla melensa teatralità dei salotti Mediaset. Due attori interpretano Mario e Rosa, coniugi in causa per la separazione. Rosa la separazione la richiede per un motivo ben preciso: i numerosi episodi di violenza coniugale di cui è stata vittima. Mario, premio Oscar per il victim blaming, dal canto suo non ci pensa due volte a giustificarsi sostenendo che tutti gli episodi erano scaturiti da atteggiamenti ostili e aggressivi da parte della moglie. Brevemente: Rosa se l’è cercata.

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Rosa se l’è cercata perché i mariti non si devono fare incazzare. E nella settimana in cui le pagine della cronaca nostrana raccontano di sette femminicidi succedutisi l’uno dopo l’altro in soli sette giorni, la signora Palombelli non ci pensa due volte ad invitarci tutti ad una profonda riflessione sulla natura di questi delitti. Per essere più precisi, sulla loro liceità:

«Qui parliamo della rabbia tra marito e moglie. Come sapete, negli ultimi sette giorni ci sono stati sette delitti. Sette donne uccise, presumibilmente da sette uomini. Questo soltanto per dire l’ultima settimana. A volte però è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda, dobbiamo farcela per forza, perché dobbiamo, in questa sede soprattutto che è un tribunale, esaminare tutte le ipotesi».

Con il beneplacito della giornalista, è dunque opportuno che ciascuno di voi oggi si chieda, e con urgenza, se non sia possibile considerare raptus e femminicidio in qualità di sinonimi. E, a rigor di logica, ognuno degli ottantatré femminicidi verificatisi dall’inizio dell’anno ad oggi nel nostro Paese non come qualcosa di compiuto dai carnefici, ma consciamente voluto e cercato dalle vittime. Perché se spogliato del retorismo tipico di chi ha interiorizzato il sessismo e la violenza sistemici fin dentro le viscere — tanto da non rendersi minimamente conto dell’assurdità di ciò che sta dicendo — il messaggio in sintesi è proprio questo. La presunzione di liceità degli interrogativi di Palombelli rimane più che discutibile. Per noi invece rimane sinceramente lecita la possibilità di chiederci quali variabili sia possibile isolare dal suo discorso per andare oltre il sentimento d’indignazione generale ed evitare di rimanervi impantanati; per mettere, cioè, veramente a frutto i germi della rabbia ed il dissenso che circostanze come questa sono in grado di risvegliare; per fare sì che la dirompenza — necessaria e rivoluzionaria — del contraltare polemico che inevitabilmente scaturisce da dichiarazioni come questa non si lasci irreggimentare e banalizzare entro i margini di una bufera mediatica (l’ennesima) di cui di volta in volta sono solo i soggetti a cambiare, contrariamente alle dinamiche strutturali di cui essi si fanno sfacciatamente portavoce che sotto i polveroni sollevati dai loro scandali continuano a perpetuarsi e a proliferare indisturbate. Le direttrici che isoliamo, quindi, sono due. 

La prima: chiedersi se «ci sia stato un comportamento esasperante e aggressivo dall’altra parte» non si traduce solo nel performativismo di un victim blaming nauseabondo. Si traduce anche, e ancora una volta, nella colpevolizzazione e nella delegittimazione della rabbia femminile. Non sei fatta per arrabbiarti e infatti non devi, perché se lo fai significa che non stai al tuo posto. Per cui se hai un compagno fumantino e gli stiri male la camicia, lui te lo fa notare e tu ti incazzi, nell’ipotesi in cui lui se la prenda così tanto da ammazzarti la colpa è tua. Perché da che mondo e mondo se alle donne è concesso provare emozioni, queste devono sempre e solo convergere nella spirale di una tolleranza e di un assistenzialismo disperati. Pena? Sei una provocatrice. E se tu mi provochi, poi non dire che non te la sei andata a cerare.

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Seconda variabile, che stranamente si ricollega in parte alla prima. Si potrebbe dire: ma è Mediaset, che cosa vi aspettate? Ci aspettiamo di avere il diritto di rivendicare una tv diversa da quella che ha legato a doppio filo lo share e l’oggettivazione del corpo femminile come in ere di berlusconiana memoria, e ciò non diversamente da come ci aspettiamo di ottenere quello di non assistere mai più ad un processo alla vittima in diretta. È successo anche in RAI con il “Caso Genovese”, e ciò suggerisce che a prescindere che si tratti di emittenti private o meno, sia giunto sia il momento di problematizzare qui ed ora perché programmi (e/o dichiarazioni  in esse contenuti) totalmente negligenti nei confronti delle vigenti normative in tutela di diritti umani o di genere continuino ad infestare i nostri palinsesti. Capire perché se davvero temi delicati come i femminicidi devono essere portati in onda, allora non lo si debba fare con criterio chiamando in causa persone competenti i cui interventi possano contare più di quelle dei cadaveri da salotto dalla preparazione pressoché nulla ma la cui dubbia facoltà di parola, per il solo fatto di poter esistere, viene puntualmente eletta a criterio di legislazione ed opinione universale. E magari capire lo scarto tra quanto sono responsabili loro della tv che guardiamo e quanto, al contrario, ne siamo responsabili noi. 

Tra una settimana le dichiarazioni di Palombelli sui femminicidi forse cadranno nel dimenticatoio, ma a noi rimarrà addosso tutta la rabbia di chi ha dovuto ascoltare che di fronte ai cadaveri di sette donne è ancora «lecito chiedersi se» non siano state loro a cercarsela; e il compito, arduo ma necessario, di sciogliere, e per intero, l’iceberg di cui dichiarazioni come queste costituiscono solo la punta. E per noi è questa l’unica cosa che rimane lecita da chiedersi: chissà cosa farete quando arriverà quel giorno. Parafrasando Viola Carofalo, chissà da quel giorno in poi dov’è che vi nasconderete.

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Sara Campisi

Classe 1996. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

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