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«Our Dancing Daughters»: vitalità e seduzione

In perenne equilibrio fra spigliatezza e baratro, dal film emerge un amore per l’esistenza al di là del bene e del male

2 minuti di lettura

Un manifesto, anzi, un baluardo parlante. Our Dancing Daughters di Harry Beaumont (1928) è un film che consiste di immagini ideali, sottratte al peso della concettualizzazione e tese a esemplificare – semmai – la dialettica tra le regole di una società (ancora) puritana e il generoso rifiuto dell’inibizione. L’invalsa energia di Joan Crawford permea i tratti della protagonista di quest’opera, una «monellaccia» dalle gambe volanti, accarezzate dalla camera nella folgorante overture. C’è, in questa sequenza, tutto il fuoco dell’età del jazz, il proclama di un nuovo tempo, a cavallo tra rabbia e dissolvenza. Il gusto per il dettaglio è una lente sui meccanismi socio-culturali, sul racconto di una generazione “paradigmatica”, che nell’identificazione con le celebrità esprime un desiderio di rivolta, il rigetto delle convenzioni in nome di ideali pre-edonistici.

Non che Our Dancing Daughters sia il padre di Saturday Night Fever (1977); la risposta delle platee fa i conti con altri modelli, il parallelismo Crawford-Travolta è più una suggestione che un dato dirimente. Nota Alexander Walker:

In un’epoca di maggiore semplicità, quando il divertimento di massa era il cinema e non la discoteca, l’identificazione dei giovanissimi con una star che appariva tutt’uno con i suoi personaggi non era limitata alla febbre del sabato sera.

Il vitalismo della diva – meno maturo, certo, del “riflusso” à la Travolta – impone una riflessione sul bisogno di fuoriuscire, sulla salvezza da un orizzonte cupo, in fondo banale, irto di diktat e tormenti.

Come la disco-dance bruciava gli anni della violenza, così il charleston di Diana Merick (Crawford) spazza i carcami della crisi, dà voce a un’impudenza liberatoria, che si alimenta di brindisi e cambi d’abito. Sciolta dal peso della prassi, la giovane danza in pagliaccetto, rifiuta il vestito da sera, elimina ogni ostacolo alla piena joie de vivre. I movimenti nervosi, scattanti delle sue gambe ben si adattano alla smania di fuggire il conformismo, laddove le figure che l’accompagnano si pongono piuttosto come vittime del tempo: da un lato Ann (Anita Page), dal viso infantile nell’era delle “maschiette”, schiacciata dalla voracità di una madre de-genere; dall’altro Beatrice (Dorothy Sebastian), il cui marito si fa campione di mascolinità tossica, con derive misogine e vessatorie.

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In perenne equilibrio fra spigliatezza e baratro (quasi una prefigurazione del Ventinove, con l’imminente crollo del mercato azionario), Our Dancing Daughters fa emergere una vitalità interiore, un amore per l’esistenza al di là del bene e del male. Naturalmente, in tale prospettiva, il personaggio di Crawford non è esente da manierismi: sfacciata sì, ma una “brava ragazza”, coerente con le sue idee, incapace di fare male. Un modello da offrire, dunque, nella sua esuberanza razionale.

Non è un caso, come riporta Walker, che la Crawford e Our Dancing Daughters siano rispettivamente l’attrice e il film più citati dei giovani intervistati negli anni 1919-1933 dal Payne Found, istituito per monitorare l’impatto del cinema sugli adolescenti. Una giovane donna ammise di «mescolare i liquori come Diana», un’altra notò il suo impegno indefesso, la rivolta contro i pre-testi e l’incrollabile “lealtà”. Diana sa perdere con misura, subisce anche lei un abbandono. È una sovversiva moderata, il contrario dell’autentico “di donna” che avremmo imparato a conoscere.

Da questa posizione, in fondo piuttosto ingenua, possono nascere delusioni. Ma non intaccano né la “tesi” del film né la forza della sua eroina: Diana Merick non vuole illustrare, il suo brio e la sua malizia sono porte d’accesso a un immaginario in costruzione. «La vecchia generazione crede che una ragazza moderna sia disposta a tutto pur di riprendersi l’innamorato, anche ad ammazzare», ebbe a dire una spettatrice. L’“onestà” della Crawford ha dimostrato che non è così, in uno sforzo di acclimatazione, che è poi la chiave della coscienza propria e altrui.

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Riferimenti bibliografici:

J. Crawford – J. Kesner Ardmore, A portrait of Joan, New York, Doubleday,1962.
A. Walker, Joan Crawford. l’ultima Diva, Milano, Garzanti, 1989.

Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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