Lunedì 26 luglio il presidente tunisino Kais Saied ha sospeso il Parlamento per almeno trenta giorni, insieme alla destituzione dello speaker Rached Ghannouchi, del premier Hichem Mechichi e di altri ministri nei giorni successivi, precisamente di quello della difesa e della giustizia. Immediatamente il dibattito interno si è spaccato: chi denuncia un golpe e chi, invece, inneggia all’uomo forte che starebbe salvando la Tunisia dalla corruzione, oltre che dalla condizione di declino economico in cui versa dalla Rivoluzione tunisina del 2011 e di cui soffriva anche in precedenza.
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La pandemia in quest’ultimo anno non ha fatto che rendere più drammatica la situazione: la Tunisia si trova nel pieno della sua ennesima ondata di contagi, la popolazione è stremata e per questo arrabbiata, lo provano le proteste che da mesi si susseguono. Risale giusto a luglio la dichiarazione da parte del Ministro della Salute tunisino riguardo al crollo del sistema sanitario causato dal diffondersi del Covid-19, che ha provocato la morte di più di 17mila persone in una popolazione di 12 milioni di cittadini. I manifestanti se la prendono, quindi, con un governo inefficiente, che non solo non ha saputo gestire la situazione attuale, ma che da anni realizza politiche fiscali di austerity che hanno impedito l’implementazione del sistema sanitario e non hanno mai saputo dare una risposta efficace alla disoccupazione e al disagio economico dilagante.
Chi è il presidente Kais Saied?
Un ex-docente e avvocato costituzionalista, un conservatore che si è espresso a favore della pena di morte (non più in vigore in Tunisia dal 1994), contro l’equo diritto ereditario di uomini e donne e che ha definito la tolleranza verso il mondo LGBT+ come una forzatura a favore della quale spingono pressioni estere. Un outsider che non si riconosce, e che non vuole riconoscersi, in nessun partito. Proprio in quest’ultimo punto, Saied fa la sua forza politica e la sua leva elettorale. Un populista che ha fatto dell’espressione «Il popolo vuole» uno dei suoi slogan di maggiore tendenza.
Così si è presentato, da indipendente, alle elezioni presidenziali del 2019. Ha vinto soprattutto grazie ai voti dei più giovani, tra i diciotto e i venticinque anni, che costituiscono la maggioranza dei suoi elettori. I motivi che hanno spinto, due anni fa, a scommettere su un nuovo leader, che si stava giusto in quel momento immettendo nella scena politica, si sono basati proprio su quella parte di elettorato giovane, istruita e con scarsissime possibilità lavorative e prospettive di futuro. I giovani, infatti, rivendicavano una linea politica che mettesse al centro le questioni economiche e che rompesse l’immobilismo regnante da anni. Difatti, nel panorama dominato dal partito Ennahdha, inizialmente islamista e ora autodefinitosi come democratico-musulmano, il dibattito si era polarizzato sul tema del rapporto tra religione e politica, trascurando gli altri problemi strutturali del Paese.
Il dibattito sulla costituzionalità del presunto golpe in Tunisia
Si parla delle vicende di questi giorni come della più grave crisi politica dalla primavera araba, il timore è quello della possibilità di ritorno a un regime autoritario sulla scorta della dittatura di Ben Ali, che dal 1987 ha represso e piegato il Paese, fino al 2011, ossia l’anno in cui è stato cacciato e si è rifugiato in esilio in Arabia Saudita. Alle accuse di golpe però Kais Saied risponde argomentando la costituzionalità delle azioni politiche da lui intraprese in Tunisia. Si rifà infatti all’articolo 80 della Costituzione emanata nel 2014, il quale ammette la possibilità di sospensione del Parlamento in caso di emergenza e pericolo per la nazione. I suoi oppositori replicano che non sussistono delle basi di immediato rischio e necessità tali da giustificare l’attuazione di quest’ipotesi, pur prevista dalla Costituzione.
Sullo sfondo di queste lotte di forza c’è un panorama politico estremamente instabile: il già citato primo partito del paese, Ennahdha, è in realtà estremamente impopolare. Molte delle proteste da parte della popolazione tunisina dirigono il loro malcontento proprio contro una classe politica burocrate, incapace di gestire i delicati e precari affari del Paese e, anche secondo la narrazione di Saied, tragicamente corrotta. Per questo motivo non sono state rare, accanto a quelle di dissenso, le manifestazioni di gioia ed entusiasmo in seguito alla presa di potere forte del Presidente il 26 luglio.
Da considerare è anche il fatto che la Tunisia sia una repubblica semipresidenziale pluripartitica in cui il presidente detiene vasti poteri. Ѐ comandante delle forze armate e viene eletto direttamente dal popolo, ha voce in capitolo sulla designazione del governo, è lui infatti a nominare il primo ministro, il quale però deve essere approvato da un arco parlamentare eletto. Alla luce di ciò, Saied godeva già di ampio potere sulla base della sua carica presidenziale, potere però a quanto pare non sufficiente per mettere in atto quella «Nuova rivoluzione» che sin dalla sua elezione nel 2019 dichiara di voler realizzare spazzando via – si può dire populisticamente – corruzione, inefficienza e negligenze della classe politica.
Una democrazia giovane, ma pronta a durare?
Sono in molti a sostenere che la democrazia tunisina sia fragile e, in fin dei conti, minata sin dalle radici dal fatto che le forze politiche che hanno combattuto per la sua instaurazione – Ennahdha era lo schieramento principale di opposizione al dittatore Ben Ali – non sono state in grado di farla sedimentare. D’altra parte, come dichiara l’esperta tunisina di politiche pubbliche Ouiem Chettaoui in un’intervista ad Al Jazeera, la preoccupazione principale è che dopo l’ennesima delusione persino la società civile del Paese avrà perso la fiducia nelle istituzioni democratiche.
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In fin dei conti, quindi, è realistico pensare che Saied non sia effettivamente un «salvatore del popolo», come si sforza di presentarsi, e che non abbia sconvolto la divisione dei poteri dell’assetto istituzionale tunisino per pura bontà d’animo. La fatidica domanda però continua a riecheggiare in primis nelle orecchie dei cittadini in Tunisia e in secondo luogo in quelle degli osservatori internazionali: sarà golpe?
Di risposte definitive, come al solito nel campo della politica internazionale, non se ne hanno prima che i tempi siano maturi e le conseguenze si siano dispiegate. Uno sguardo democratico però – come quello ad esempio di Amnesty International che lancia immediatamente un appello al rispetto dei diritti umani – non può che vedere con sospetto una mossa politica di questo genere. Nel 2019 Saied parlava di «Nuova rivoluzione» : una nuova rivoluzione anti-elitaria ma, viene da chiedersi, anche anti-democratica?
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