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I social? Tappabuchi delle nostre insicurezze

Come degli influecer sentiamo la necessità di condividere il nostro pensiero e la nostra vita sui social, forse nascondendo dell'insicurezza. Cosa sono per noi, ad oggi, i social?

6 minuti di lettura

In fondo siamo tutti dei piccoli influencer, chi più chi meno. Perché sentiamo il bisogno di dire e far vedere tutto (ma proprio tutto) quello che facciamo.

La storia che proveremo a raccontarvi oggi è solo la punta di un iceberg che riguarda un po’ tutti quelli che su Instagram “ci campano”, nel senso che condividono qualsiasi cosa di quello che fanno o dicono, o mangiano.

La necessità di condividere

Ecco, prima di andare ad analizzare non tanto l’abitudine, quanto le modalità, facciamo un passo indietro. Perché sentiamo la necessità di dover sbandierare tutto online? O meglio, di far vedere tutto quello che facciamo a quella grossa fetta di “amici” che spesso nemmeno conosciamo e di certo non frequentiamo nella quotidianità?

Foto di Robin Worrall. Font: Unsplash

Dal punto di vista psicologico, se ci pensate, è abbastanza normale.
È un po’ un vizio di tutti, non solo di quelli che hanno un milione e passa di followers su Instagram. È come ci fosse la necessità di dire la propria opinione su qualsiasi argomento: si sente il bisogno di far vedere tutto quello che si fa e si dice. Ma questa non è di certo una novità. All’inizio erano le foto al cibo, poi i video alle location più esclusive e particolari. Siamo passati dai food blogger ai travel blogger, agli opinioners. Adesso addirittura vogliamo far vedere che ne sappiamo più degli altri. Che abbiamo ragione noi, anzi.

I social come fonte d’informazione

Prendiamo il tema dei vaccini e del Green Pass, quanto mai attuale. Spesso, durante tutto il corso di questa pandemia, ci si è informati molto (e male) proprio attraverso i messaggi di personaggi influenti che hanno liberamente espresso la loro opinione, ma che forse non avevano le conoscenze adatte per esporsi su un tema così delicato. Perché c’è anche da dire che questa cosa dell’autorevolezza sta sfuggendo un po’ di mano. Pensiamo di avere il potere di dire la nostra su tutto, ma dobbiamo anche fare attenzione ai temi che trattiamo e a come li spieghiamo. Capita di vedere post di persone che non fanno altro che parlare per bocca di altri: ora, io mi rendo conto che la figura dell’influencer nasca proprio grazie a questa continua condivisione di contenuti, al punto da diventare fenomeni virali. Ma è anche vero che sta venendo sempre meno il pensiero critico e che non ci si informa su certe cose come si dovrebbe. Non ci si fa una propria idea, insomma. Anzi, spesso si sbandierano per proprie le convinzioni di qualcun altro che, nel momento in cui dovessero venire meno, ci trascinerebbero in un turbine di imbarazzo dal quale avremmo anche una certa difficoltà ad uscire. Ma perché mancano proprio gli argomenti.

Fateci caso. È successo qualche settimana fa a Imen Jane e Francesca Mapelli, le due influencer di Milano che pensavano di dare una lezione di vita a una malcapitata commessa palermitana, e invece ci hanno fatto la figura delle snob. Si sono scusate, è vero, ma la frittata ormai era fatta e il web in questi casi non perdona. Pensate poi a Fedez, che dà “una lezione” a Matteo Renzi organizzando un dibattito online sull’omotransfobia con il deputato Alessandro Zan (il padre dell’omonimo DDL in discussione al Senato), Marco Cappato e Pippo Civati.

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O ad Aurora Leone dei The Jackal, esclusa dalla cena con la nazionale attori, solo qualche mese fa, perché donna. Il video in cui ha denunciato l’accaduto ha avuto una risonanza tale sui social da aver fatto parlare di questo argomento anche in tv e sui giornali. I social stanno influenzando la realtà, potremmo dire.

Siamo tutti un po’ influencer

Ma quanto pesano, in termini di autorevolezza, i numeri che ci portiamo dietro sui social? Tanto.
Proviamo a metterci dall’altra parte. Proviamo a vederla dal punto di vista dell’influencer. Numeri piccoli o grandi, non importa: si può essere influencer anche con poche migliaia di followers.

Foto di Bruce Mars. Fonte: Unsplash

La pandemia (e in generale l’ultimo anno e mezzo) ci ha impedito sia di viaggiare che di condividere un mucchio di cose, fisicamente, con le persone. Motivo per cui ci siamo creati una fitta rete di contatti che ci hanno portato a stringere molte più amicizie virtuali, piuttosto che reali. Non solo, perché abbiamo passato talmente tanto tempo online, nel 2020-21, che adesso ogni volta che usciamo di casa a fare qualcosa sentiamo il bisogno di farlo vedere, di continuare a condividere i momenti della vita reale con quel gruppo di “amici” che ci adorano e che guardano curiosi qualsiasi cosa postiamo. Che pendono, in un certo senso, dalle nostre labbra (e dalle nostre stories).

Si dice che esista una sola forza in grado di spingere le persone ad andarsi ad impicciare dei fatti degli altri. No, non è la volontà, e nemmeno l’amore, o la gravità: è la curiosità.

Tendiamo a farlo un po’ tutti: chi più, chi meno. Inconsciamente vogliamo dar da “mangiare” sempre più spesso al nostro pubblico, mostrandogli senza mezzi termini chi siamo e come stiamo tornando alla “normalità”. Avere il potere di “influenzare” gli altri, creare una tendenza, far condividere loro i nostri contenuti (e quindi il nostro pensiero) ci fa sentire potenti. Ci infonde una forza che non pensavamo di possedere: la convinzione di avere sempre ragione.

Abbiamo la certezza che ciò che abbiamo detto, o fatto, spingerà altri ad imitarci. Il bello è che il più delle volte nemmeno ce ne accorgiamo, ma è anche vero che in fondo lo abbiamo fatto anche noi, all’inizio. Abbiamo emulato cose che abbiamo visto fare. È un continuo scopiazzare, senza rendercene conto: lo stile delle foto, i filtri da usare nelle stories, il taglio di un video, il voler andare negli stessi posti che ha visitato quell’influencer, e così via.

La forza divoratrice dei followers

Non c’è dubbio che la ricerca di questa tanto agognata normalità sia molto più evidente nel feed di chi adesso tenta di recuperare il tempo perso, uscendo il più possibile e rivedendo gli amici di sempre. Che non è un male. Il fatto è che ci sentiamo in un certo senso obbligati a dirlo, ma ancor di più a farlo vedere a tutti quelli che “abbiamo lasciato a casa”. I followers. È a loro che dobbiamo dare conto.

Sentiamo il bisogno di sentirci apprezzati e coccolati da quelle decine di migliaia di persone pronte ogni giorno ad entrare nel nostro profilo per vedere se abbiamo fatto qualcosa. Che vogliono sapere dove siamo andati, cosa abbiamo mangiato, con chi abbiamo parlato. E che, paradossalmente, si chiedono se non sia successo qualcosa quando smettiamo di postare, magari perché abbiamo da fare o semplicemente non abbiamo nulla da comunicare in quel momento. È questo che ci fa sentire in dovere di “influenzare” la nostra comunità. Ce lo chiedono loro. Non possiamo farci niente.

Ci si sente perennemente in debito nei confronti dei fan. Saperli dalla nostra parte ci infonde ancor più sicurezza. Perché in fondo i social sono questo: tappano i buchi delle insicurezze che ci portiamo dietro. E dietro un like o un commento o una reazione ad una storia c’è tutto quel mondo che ci fa sentire al sicuro, ci protegge, non ci fa più sentire soli.

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E così pubblichiamo, pubblichiamo, pubblichiamo, spinti dalla convinzione di non dover sparire. Perché sennò poi ci dimenticano.

Quando sei lì per pubblicare non ti chiedi più se sia giusto o sbagliato quello che stai facendo. O se quel contenuto possa offendere qualcuno. No, pensi sia assolutamente normale raccontare tutto quello che fai. Un movimento automatico: il dito si muove da solo, sa già dove deve cliccare. 

Pensiamo: «Fammi immortalare questo momento, così lo faccio vedere ad altri». Certe cose, però (come nel caso delle due influencer a Palermo, ma gli esempi sarebbero tantissimi) sarebbe meglio tenerle per sé e lasciarle disperdere nell’aere della vita reale (o in alcuni casi, non dirle affatto).

Perché se ci pensate c’è anche un discorso di fiducia, dietro questo volerci mostrare il più autentici possibile. Vedere tante persone che ci seguono e che ci emulano ci infonde una sicurezza in noi stessi che non avremmo mai pensato di avere. Sicurezza, fiducia e credibilità si costruiscono con il tempo, è vero, ma si rischiano anche di perdere in un attimo se ad un certo punto non si è più coerenti con i propri valori.

Il perpetuarsi della memoria sui social

Imen Jane ha perso quasi 16mila followers dopo la gaffe a Palermo. Gente che anche se fai i salti mortali, non la recuperi.

Perché a differenza di quella reale, la nostra esistenza sui social ha un grosso difetto: non dimentica niente, anzi. Lo lascia impresso nel cloud della nostra vita e, anzi, te lo sbatte davanti ancora e ancora, se vieni meno ai valori che hai sempre sbandierato. Perché la condivisione è così. È la nostra fortuna quando dobbiamo “venderci”, la nostra rovina quando si fa una cazzata.

Valerio Novara

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Redazione

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