Martedì 6 aprile i media hanno visto Mario Draghi volare in Libia, a Tripoli, nella sua prima visita di Stato in qualità di presidente del Consiglio italiano per incontrare il primo ministro del governo di transizione Abdul Hamid Debeibah. Dopo un dialogo tra i due leader c’è stata la dichiarazione congiunta in mattinata, in cui hanno fatto presente gli obiettivi prefissati e gli argomenti centrali che concernono gli attuali e futuri rapporti italo-libici: collaborazione in campo energetico, investimenti italiani in infrastrutture sul territorio libico, cooperazione riguardo alla questione dell’immigrazione e potenziamento degli scambi culturali e di istruzione tra i due paesi.
La scelta della destinazione del primo viaggio istituzionale del presidente Draghi non è casuale: rapporti storici, economici e geopolitici legano Italia e Libia. Per questo la ragion di stato vuole che quello mediterraneo sia uno scenario che la politica estera italiana non solo non può permettersi di trascurare, ma che è conveniente mettere in primo piano.
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Perché Draghi visita proprio la Libia?
Le ragioni dell’importanza della Libia sono anche di carattere storico e si immergono nel passato colonialista del Bel Paese: nel 1912 l’Italia governata da Giovanni Giolitti strappa all’Impero ottomano le regioni africane della Tripolitania e della Cirenaica; nel 1934, sotto Benito Mussolini, i territori occupati vengono uniti nel Governatorato Generale della Libia. Alla fine degli anni Trenta comincia ufficialmente la penetrazione economica italiana in campo energetico: c’è infatti la scoperta di giacimenti di petrolio da parte di Agip ed Eni e inizia “l’operazione Petrolibia” che porterà negli anni ’60 ad ottenere numerose concessioni per l’utilizzo delle fonti energetiche dell’ormai ex-colonia.
Dopo l’indipendenza della Libia nel 1951, ottenuta nel pieno del processo globale di decolonizzazione, sarà il terremoto prodotto nel 1969 dalla rivoluzione guidata da Muhammar Gheddafi, un militare fortemente panarabista e anticolonialista che proclama la nascita della Repubblica Araba di Libia e nazionalizza le risorse petrolifere, a far tremare di paura l’ENI e l’Italia del boom economico.
Gheddafi è percepito dagli occidentali durante gli anni ’70-’80 come un’enorme minaccia agli interessi economici dei paesi ricchi e come un sostenitore del terrorismo internazionale. La normalizzazione dei rapporti con la Libia e il riconoscimento in ambito diplomatico del ruolo di Gheddafi è un processo arduo, che tra alti e bassi si svolge nel corso degli anni ’90 e che per quanto riguarda l’Italia culmina nella firma del Trattato di Bengasi nel 2008, durante il governo di Silvio Berlusconi.
Si possono insomma sintetizzare i motivi dell’interesse italiano nei territori libici nelle due parole chiave che danno impulso alla maggioranza delle strategie geopolitiche degli stati nazionali occidentali: petrolio ed energia. Basta pensare che nel 2010 la produzione di petrolio in territorio libico ammontava a 600mila barili al giorno, di questi 267mila erano prodotti dall’Eni, come riportato dall’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo.
L’instabilità della Libia e la guerra civile
Il trattato firmato a Bengasi viene sospeso dal governo italiano nel 2011, nel momento in cui le ribellioni popolari della primavera araba, la violentissima repressione messa in atto da Gheddafi e l’offrirsi di un’occasione per le potenze occidentali di togliere di mezzo un leader ostile alle ingerenze di tendenza colonialista ancora caratteristiche dell’atteggiamento di alcuni paesi – vedasi per esempio le ragioni dell’interventismo francese – creano le condizioni per un intervento NATO e per la collaborazione alla cattura ed uccisione del dittatore nell’ottobre dello stesso anno.
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Da quel momento in Libia è guerra tra milizie: ci sono anni di scontri che vedono coinvolti molteplici attori, tra cui l’ISIS sconfitto nel 2016. Nello stesso anno si forma il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez Al Sarraj con una presa forte sulla Tripolitania e lo scontro si polarizza tra quest’ultimo e le forze armate del generale Khalifa Haftar in Cirenaica.
Dopo anni di combattimenti – in cui Haftar ha il supporto di Russia, Egitto e Francia e Al Sarraj quello dell’ONU e della Turchia – il conflitto vede una svolta nel 2019 con l’assedio di Tripoli da parte delle forze di Haftar supportate da militari russi. L’assedio si rivela un insuccesso quando la Turchia scende in campo con i suoi uomini in favore del GNA di Al Sarraj e apre la strada alla stipulazione di un cessate il fuoco nell’ottobre 2020.
La situazione attuale è quella di una Libia retta da un governo di unità nazionale di transizione nominato nel marzo 2021 e capeggiato da Debeibah, un imprenditore di Misurata, che deve condurre il paese ad elezioni democratiche previste per dicembre 2021, anche se le sfide sono ancora enormi, la stabilità ancora precaria e quindi i possibili esiti ancora incerti. A preoccupare Debeibah, l’Italia e la comunità internazionale è, tra le altre cose, la permanenza di soldati turchi a ovest, in Tripolitania, e russi, a est in Cirenaica, seppur secondo gli accordi il termine per il ritiro delle truppe di questi attori esterni fosse a gennaio 2021.
Il ruolo dell’Italia
Nel suo discorso durante la dichiarazione congiunta di martedì mattina, Draghi ha espresso la volontà di «Ricostruire un’antica amicizia», che a detta dei due leader non si è mai interrotta: l’attività di estrazione petrolifera dell’Eni è proseguita e l’ambasciata italiana è stata l’unica rappresentanza diplomatica occidentale a rimanere presente nel territorio libico nel corso del conflitto.
L’Italia si impegna quindi a investire in Libia, ad esempio attivando le imprese italiane per la ricostruzione delle infrastrutture, come gli aeroporti che sono stati distrutti durante la guerra e come il progetto risalente al Trattato di amicizia del 2008 per la costruzione di un’autostrada che colleghi il confine libico-egiziano con quello libico-tunisino. Altro segnale importante di cooperazione è l’impegno dell’Italia a offrire a Tripoli supporto sanitario per la lotta contro il COVID-19.
Significativo è come i discorsi di entrambi i presidenti sottolineino che tutte le politiche saranno attuate nella «Preservazione della piena sovranità della Libia», che suona al tempo stesso come una formalità e come un monito rivolto e richiesto agli ex-coloni italiani.
L’Italia quindi torna a scendere in campo in uno scenario in cui nell’ultimo periodo sembrava battere in ritirata, sia a causa della perdita di centralità dovuta alla mancata prontezza nel sostenere Al Sarraj quando Haftar ha attaccato Tripoli, sia per via della concentrazione del governo italiano sugli affari interni durante la pandemia. Numerose sono state le critiche nei confronti dei governi dell’ex-presidente del consiglio Giuseppe Conte, che alle accuse di aver gestito in maniera inefficace, se non trascurato, il ruolo italiano in Libia, risponde perentoriamente rivendicando invece l’importanza dell’operato suo e del suo team.
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La questione delle migrazioni è però quella che maggiormente ha fatto scalpore nell’opinione pubblica a seguito della visita a Tripoli. Sia Draghi che Debeibah sottolineano come l’argomento sia un problema internazionale: Libia e Italia sono paesi di passaggio in cui il fenomeno si manifesta in maniera più esplicita e drammatica, ma ciò non esime dalla responsabilità di collaborazione gli altri Stati. Fin qui nessuno ha ritenuto di aver qualcosa da obiettare, le critiche nei confronti di Draghi si concentrano sulle successive dichiarazioni come: «Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia».
Le parole di Draghi non fanno che inserirsi nella retorica di giustificazione della strategia politica UE ed italiana della esternalizzazione delle frontiere, volta ad impedire che i migranti raggiungano i confini europei. Essa si è tradotta concretamente nel finanziamento di governi (come quello turco) e pseudo-governi (come quello libico durante la guerra), per far sì che trattenessero gli individui che cercavano di raggiungere la Grecia nel primo caso e l’Italia nel secondo. Quanto denaro di questi finanziamenti sia effettivamente stato impiegato dai beneficiari per la creazione di condizioni di vita dignitose e per l’assistenza ai migranti non è dato sapere, ma è tristemente realistica l’ipotesi di una quantità minima se non nulla. Le inchieste giornalistiche parlano di violazioni dei diritti umani, condizioni insostenibili, violenze, stupri e soprusi compiuti da trafficanti appartenenti anche alla sedicente Guardia Costiera libica ed altre autorità del paese.
Rendere materialmente possibile queste pratiche fornendo sostegno economico e definirle “salvataggi” significa macchiarsi di colpe di cui la Storia chiederà all’Italia, così come all’Unione Europea, di assumersi la responsabilità. Significa fare dell’ipocrisia il tratto caratteristico di un’Europa che formalmente è culla dello stato di diritto e concretamente è partecipe di alcune delle peggiori violazioni di diritti umani che si stanno consumando nella nostra epoca. Ma la ragion di stato vuole che Draghi voli in Libia, e così sia.