L’impresa genealogica condotta da Michel Foucault nella metà degli anni ’70, finalizzata alla comprensione e all’esposizione della rete di relazioni che costituiscono il campo politico, affronta nel suo corso al Collège de France del 1975-1976 il tema del razzismo.
Il quadro generale in cui Foucault inserisce questa indagine è quello della concezione di potere nei termini di un insieme di estrinsecazioni e relazioni tra forze, che si dispiegano secondo il paradigma bellico della dominazione-sottomissione. In questa prospettiva, esplicitamente polemica nei confronti della teoria moderna tradizionale di matrice contrattualista, la politica consiste nell’attività di perpetuare violentemente eppure silenziosamente l’ordine di forze prevalenti affermato in uno scontro armato storicamente precisabile o, d’altro canto e in maniera complementare, nella militanza volta al sovvertimento di tale ordine al fine di costituirne uno nuovo. Suggestivo e rivoluzionario all’interno di questo corso è, in tal senso, il rovesciamento della tesi di Clausewitz che Foucault mette in atto, la politica è continuazione della guerra, per cui:
La politica come guerra continuata con altri mezzi significa che la politica è la sanzione e il mantenimento del disequilibrio delle forze manifestatosi nella guerra. Ma il capovolgimento della frase di Clausewitz vuol dire anche che, all’interno della “pace civile” ovvero in un sistema politico, le lotte politiche, gli scontri a proposito di potere, col potere, per il potere, le modificazioni dei rapporti di forza, non dovrebbero essere interpretati che come la prosecuzione della guerra. [1]
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Nell’ambito della politica come guerra, Foucault definisce il razzismo come un’arma e più precisamente come dispositivo, cioè una formazione eterogenea composta da pratiche, discorsi ed istituzioni attraverso cui si attualizzano le forze che si scontrano e che costituiscono il diagramma in cui la dimensione politica stessa si articola. Lo status di dispositivo che Foucault attribuisce al razzismo rende necessario, in primis, intenderlo non nei tradizionali termini di un’ideologia che si articola prettamente nella dimensione teorica ed enunciativa del sapere e che produce solo successivamente e consequenzialmente delle applicazioni pratiche, ma come emergenza della inscindibile connessione di sapere e potere, di dimensione discorsiva e non discorsiva. Non c’è alcuna relazione di potere che non produca un discorso da utilizzare come mezzo per affermarsi e legittimarsi, così come non c’è alcun sapere neutrale che non sia modalità di esplicitazione della propria forza.
Da questo punto di vista e partendo da questi presupposti, ciò che Foucault tenta di fare nelle sue lezioni è individuare il ruolo che il razzismo occupa e le funzioni che opera nella tecnologia di potere, cioè nell’insieme di pratiche e discorsi volti al mantenimento della prevalenza di alcune forze su altre. La tecnologia che si afferma nel XIX secolo è il bio-potere, il quale decentralizza, pur non eliminandola, l’impostazione precedentemente dominante della sovranità. La differenza fondamentale che viene a costituirsi è che «La sovranità faceva morire e lasciava vivere. Ora appare invece un potere che definirei di regolazione, il quale consiste, al contrario, proprio nel far vivere e nel lasciar morire.» [2].
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Il fatto poi che il passaggio dalla tecnologia della sovranità a quella del bio-potere implichi una evoluzione del discorso delle razze nei termini di razzismo di Stato, che quindi esso diventi un tratto caratteristico dell’istituzione politica moderna per eccellenza, è del tutto coerente se si considera che, come spiega Gilles Deleuze nella sua lettura del pensiero foucaultiano [3], le istituzioni sono dei fattori integranti che stabilizzano i rapporti di potere rendendo effettiva la loro attualizzazione.
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Il bio-potere è un insieme di modalità di esercizio della forza dominante che si caratterizza sulla base delle istanze di disciplinamento dei corpi e di regolazione delle popolazioni. Esse trovano la loro coordinazione nel processo di normalizzazione, che assume come finalità la promozione della vita, l’elaborazione di leggi, pratiche e consuetudini che creino le condizioni per vivere. Ciò che Foucault sottolinea, e ciò per cui il razzismo entra in gioco, è che il bio-potere non ha comportato una completa eliminazione dal campo politico della sovranità, emerge quindi il problema per cui una tecnologia di potere che ha il suo fine e la sua modalità di attualizzazione nel far vivere deve trovare un modo per mantenere e riservarsi la prerogativa del far morire. Come può uno Stato il cui potere deve tutelare e promuovere la vita essere legittimato ed autorizzato ad uccidere? Il razzismo, secondo Foucault, fornisce la risposta:
Il razzismo, in primo luogo, rappresenta il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, è stato infine possibile introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. […] E’ questa dunque la prima funzione del razzismo: frammentare, istituire delle cesure all’interno del continuum biologiche che il bio-potere per l’appunto investe. [4]
All’operazione di separazione messa in atto dal razzismo segue quella della declinazione di una logica originariamente bellica in termini specificamente biologici: la necessità di uccidere l’altro per poter vivere non è più circoscritta al preciso momento dello scontro armato per cui “Spari tu o sparo io”, ma si diffonde nel tessuto politico, facendo della morte dell’Altro – la sotto-razza – una condizione necessaria e quindi da perseguire costantemente per la tutela della propria vita. L’accezione biologica che definisce la morte altrui come condizione del proprio esistere, che si sintetizza nel razzismo, rappresenta l’indispensabile raccordo tra sovranità (potere di uccidere) e bio-potere (potere di far vivere).
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Il fatto che la scala di grandezza su cui il bio-potere si situa sia principalmente quella macro-fenomenica di regolazione della popolazione spiega in che modo la serie bio-potere – razzismo abbia potuto, anche storicamente, trovare un suo successivo passaggio nella legittimazione del genocidio. Il razzismo di Stato, in quanto stabilisce un rapporto di incompatibilità tra l’esistenza di una popolazione ed un’altra, legittima non solo l’uccisione di un individuo in quanto nemico politico che agisce sovversivamente in una certa situazione (come faceva la sovranità, prevalentemente tendente alla scala di individualizzazione), ma la messa a morte dell’intera razza Altra in quanto pericolo. E’ il biopotere, in cui il razzismo trova il suo senso, la sua funzione e il suo spazio di concretizzazione, che determina la natura e la portata delle conseguenze che a livello pratico esso produce e di cui Foucault trova la rappresentazione estremizzata fino al parossismo nel nazismo.
Di questo aspetto come di numerosi altri si corrobora la tesi di Foucault secondo cui il razzismo moderno non possa essere riducibile ad un «Semplice o tradizionale disprezzo o odio delle razze le une per le altre» [5] ma che «La giustapposizione, o piuttosto il funzionamento, attraverso il bio-potere, del vecchio potere sovrano del diritto di morte, implica il funzionamento, l’instaurazione e l’attivazione del razzismo». [6]
L’indagine foucaultiana mette in evidenza il carattere sistemico del razzismo moderno: esso costituisce un dispositivo fondamentale per la strutturazione delle relazioni di forza di cui il diagramma politico si costituisce, non un atteggiamento causato dall’ignoranza, non un primitivo sfogo d’odio, non una fobia che svela malcelate vulnerabilità, ma una strategia messa in atto per specifici scopi. Quando consideriamo poi che Foucault sottolinea come la morte che il razzismo legittima non sia solo uccisione fisica, ma consista anche – e probabilmente in certi contesti soprattutto – in morte indiretta e politica, intesa come rigetto o esposizione a fattori di rischio e condizioni insostenibili, ecco che il razzismo nella sua funzione di marginalizzazione ed oppressione delle minoranze risulta quanto mai fondante le relazioni politiche, oggi così come due secoli fa.
Note:
[1] M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), trad. it. M. Bertani, A. Fontana, Milano, Feltrinelli Editore, 2020, p. 23
[2] Ivi, p. 213
[3] G. Deleuze, Foucault, trad. it. F. Domenicali, Napoli-Salerno, Orthotes, 2018
[4] M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), trad. it. M. Bertani, A. Fontana, Milano, Feltrinelli Editore, 2020, p. 220
[5] Ivi, p. 223
[6] Ibidem
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