Il Giappone vanta innumerevoli aspetti che lo contraddistinguono e lo rendono semplicemente unico: la filosofia di vita, le tradizioni, la lingua stessa… Il patrimonio del Paese del Sol Levante, conosciuto in tutto il mondo, è immenso, e le poesie haiku non sono che un esempio. Gli haiku sono componimenti poetici molto brevi ed evocativi, sprovvisti di titolo, in cui a prevalere sono le riflessioni intimiste. Un haiku, infatti, non descrive precisamente una situazione o un evento; piuttosto, ha l’obiettivo di evocare nel lettore le sensazioni che derivano da un’immagine, tramite interpretazioni soggettive. Ciò che è più importante, infatti, è il “non detto”.
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I principali sentimenti che possono ispirare gli scrittori di haiku sono la solitudine (wabi), lo scorrere inesorabile del tempo (sabi), il mistero (yugen), la delicatezza (shiori), la leggerezza (karumi) e la nostalgia (mono no aware). Il soggetto ricorrente in questo genere poetico è la natura che, con la sua bellezza, suscita emozioni nell’animo umano. Le scene descritte, concise e fugaci, “colgono l’attimo”, catturano e trasmettono l’essenza di rappresentazioni effimere ma, allo stesso tempo, intense e ricche di suggestioni (una rana che salta in uno stagno, la pioggia che cade sulle foglie, un fiore che si piega nel vento…). La classica struttura degli haiku è caratterizzata da tre versi, rispettivamente di 5, 7 e 5 sillabe (in origine “more”), per un totale di 17 sillabe.
La storia degli haiku
Le origini degli haiku, che risalgono al XVII secolo, non sono certe ma prevale la tesi secondo cui, originariamente, questi costituissero la prima strofa di un renga o “poesia a catena”, una poesia scritta a più mani in cui ogni poeta che vi partecipa prosegue la composizione, completando i versi precedenti. Il renga è uno stile poetico nato nel XV secolo che alterna due tipi di strofe: la prima è composta da tre versi di 5, 7 e 5 sillabe ciascuno (ed è da questa che deriverebbero gli haiku); l’altra, da due versi da 7 sillabe.
A conferma della tesi di questa origine, il fatto che inizialmente gli haiku fossero chiamati hokku, letteralmente “strofa d’esordio” (del renga, appunto) e fu solo verso la fine del XIX secolo che lo scrittore giapponese Masaoka Shiki coniò l’attuale nome di “haiku” quale forma contratta dell’espressione haikai no ku, letteralmente “verso di un poema a carattere scherzoso”.
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Proprio per la loro immediatezza e illusoria superficialità, gli haiku furono visti per lungo tempo come uno stile di poesia “popolare” e, solo successivamente, sono stati considerati alla stregua di una forma d’arte.
La struttura degli haiku
Di solito, il primo verso dell’haiku definisce il contesto tramite un riferimento stagionale, il kigo o “parola della stagione“, che specifica il momento in cui la poesia viene scritta o al quale fa riferimento (ad esempio, una rana o i ciliegi per indicare la primavera, le lucciole o i fuochi d’artificio per l’estate). I riferimenti stagionali sono un elemento fondamentale per la buona riuscita di un haiku, tanto da essere stati raccolti in veri e propri cataloghi chiamati saijiki, “antologia delle stagioni”, in cui sono suddivisi in sette sezioni convenzionali (stagioni, fenomeni celesti, fenomeni terrestri, eventi, vita umana, animali e piante).
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Il secondo e il terzo verso, invece, evocano la sensazione; in particolare, il terzo chiude il componimento ma lascia in sospeso per dare spazio alle espressioni del proprio sentire.
Spesso, i componimenti haiku contengono almeno un kireji, letteralmente “parola che taglia“, posto, generalmente, al termine del primo o del secondo verso. Si tratta di un rovesciamento, un ribaltamento semantico o concettuale, un salto tra concetti e immagini apparentemente privi di connessione. In giapponese esistono parole specifiche, non traducibili, per indicare questo stacco tra parti grammaticalmente indipendenti; in Occidente tale significato viene reso dall’uso della punteggiatura (un trattino, una virgola o un punto).
Una lieve pioggia cade,
senza rumore, sul muschio –
quanti ricordi del passato!(Yosa Buson)
La poesia come rinnovamento
Dietro l’espressione letteraria dell’haiku vi è la filosofia per cui questo tipo di poesia rispecchia la condizione umana che, per mantenersi, ha bisogno di rinnovarsi e innovarsi. Il rinnovamento è espresso dalla riproduzione dei cicli vitali (di qui l’elemento, spesso ripreso, delle stagioni e del loro alternarsi). L’innovazione, invece, è la capacità di far fronte agli eventi avversi dell’ambiente circostante, trasformandoli in qualcosa di positivo in modo da non ostacolare i processi ciclici di rinnovamento. Questa trasformazione avviene tramite un “salto”, che permette di creare nuove soluzioni vincenti.
Secondo il filosofo, storico e saggista italiano Leonardo Vittorio Arena, la composizione di un haiku richiede un vero e proprio processo che parte da un evento casuale, sconvolgente e con una qualche valore affettivo per il poeta. Tale evento dovrà essere elaborato con il passare del tempo e, solo allora, lo scrittore sarà come illuminato e avrà la giusta consapevolezza per dare vita al suo haiku, esprimendo il significato più profondo di quanto vissuto. Questo concetto risulta chiaro nella poesia di Mizuta Masahide:
Il tetto s’è bruciato –
ora
posso vedere la luna
In questo haiku l’evento destabilizzante è contenuto nel primo verso («Il tetto s’è bruciato»); dopo un certo lasso di tempo, che può essere anche di mesi, si compie nel poeta un salto, un cambio di prospettiva che afferisce un risvolto favorevole all’evento («ora posso vedere la luna»).
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Una forma poetica solo apparentemente semplice
Per quanto gli haiku siano semplici e brevi, scriverne uno non è così facile: occorre un’attenzione particolare nella scelta delle parole, le quali devono essere adatte a richiamare alla mente precise percezioni, cosa che può richiedere anche del tempo. Come disse Matsuo Bashō, «ogni haiku dovrebbe passare mille volte sulla lingua», cioè essere rielaborato finché il significato della poesia non è espresso perfettamente. Lo stesso Arena afferma che per la composizione di un haiku è necessario «un rigido training», a volte anche piuttosto lungo, come l’haiku di Issa, per la cui stesura definitiva avrebbe impiegato addirittura mesi:
Una grossa lucciola
in vibrante tremolio
s’allontana – penetrante
I maggiori scrittori di haiku
Sono stati tanti i creatori di haiku che si sono approcciati a questo genere letterario, nel corso dei secoli. Tra i più grandi si ricordano sicuramente Matsuo Bashō, Yosa Buson, Kobayashi Issa e Masaoka Shiki. I primi tre sono appartenuti al periodo Edo (fase storica che prende il nome dalla capitale, ribattezzata poi Tokyo, e che va dal 1603 al 1868, periodo in cui la famiglia Tokugawa raggiunse il più alto potere nel Paese, a livello politico e militare); l’ultimo poeta, invece, risale al successivo periodo Meiji (che va dal 1868 al 1912, anni in cui regnò l’Imperatore Mutsuhito).
Un genere arrivato anche in Italia
Sebbene abbia origini giapponesi, la profondità e il significato metaforico degli haiku hanno ispirato migliaia di poeti in tutto il mondo e fatto sì che questo genere di poesia si diffondesse in una moltitudine di nazioni. In Italia, i poeti che sono stati ispirati, o che comunque hanno richiamato lo stile haiku nelle proprie opere, sono stati D’Annunzio, Saba, Ungaretti, Montale, Quasimodo e molti altri ancora.
L’interesse per gli haiku è ancora oggi molto attuale e praticato; non solo abbandonarsi alla lettura ma anche cimentarsi nella scrittura di un haiku è un’esperienza piacevole che permette di cogliere percezioni sensoriali, grazie ad un articolato gioco di suoni, colori, forme e contrasti.
Ilaria Simone
Immagine in evidenza: Photo by Nicki Eliza Schinow on Unsplash
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