Nell’autunno 2009 la scrittrice marocchina Laila Lalami è alle prese con una recensione per la rivista culturale statunitense The Nation. Il progetto che le viene affidato riguarda l’opera We are all Moors, un libro dedicato alla riflessione sull’immigrazione musulmana nella sfera europea. L’autrice, tra le pagine, s’imbatte per la prima volta nel nome di Estebanico, uno schiavo berbero impegnato nella storica spedizione Narváez verso la Florida. Laila Lalami rimane colpita: ripensa alla sua istruzione in Marocco e ai suoi studi americani al college, ma non riesce minimamente a richiamare alla mente la misteriosa figura. Inizia così la sua ricerca che la porta ad una cronaca di metà Cinquecento composta dall’esploratore spagnolo Cabeza de Vaca, La Relación, nella quale ritrova nuovamente il nome di Estebanico: a lui è dedicata una riga e nulla più. Viene fatta menzione delle origini marocchine e della sua condizione di schiavo, ma il resto della storia rimane un mistero. È allora che Laila Lalami decide di donargli voce.
L’autrice sceglie la narrativa, convinta che, rispetto al troppo angusto genere saggistico, la finzione possa donare ad Estebanico lo spazio che merita. Prende vita così il suo romanzo, The Moor’s Account, che racconta il viaggio del primo schiavo musulmano vissuto con i nativi d’America, narrato e reinterpretato con una prospettiva del tutto nuova, la sua. Pur presentandosi come un account, il libro non si limita ad essere tale: la voce narrante non si presenta come un’oggettiva guida storica, ma come un ponte d’accesso alla psicologia di un uomo privato della sua identità alle prese con l’avventura nel Nuovo Mondo.
Tutto ha inizio il 7 giugno del 1527, quando, l’esploratore spagnolo Narváez parte alla volta del Nuovo Mondo in cerca d’oro e terre, accompagnato da cinque navi e circa 600 persone. Alla spedizione partecipa anche Cabeza de Vaca, il valoroso soldato e uomo fidato del re Carlo V che, tra le svariate disavventure e naufragi, si ritrova a portare avanti la missione con soli tre uomini al suo fianco: Alonso del Castillo Maldonado, Andrés Dorantes e lo schiavo di origini berbere Estebanico.
Per otto anni il gruppo di sopravvissuti viaggia nel sud degli attuali Stati Uniti, attraversando Texas, Arizona e il deserto di Sonora, vivendo assieme alle popolazioni native. Il loro viaggio viene custodito nelle parole de La Relación, che per la prima volta propongono un racconto dell’indiano diverso, radicato nell’idea di relativizzazione culturale. Fino a questo momento l’europeo si è sempre posto su un piano di superiorità, rivolgendosi al Nuovo Mondo con uno sguardo privo di qualsiasi sensibilità culturale: non ha saputo far altro che descrivere il nativo come un uomo innocuo e facile da sottomettere, nell’illusione di avere istaurato un dialogo con lui, ignorando la unilateralità dello scambio. Con Cabeza de Vaca, invece, la narrazione cambia.
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Per la prima volta viene composto un testo con l’intenzione di restituire al lettore un quadro veritiero della “selvaggia” America. La scrittura cronachistica dell’esploratore dà vita ad un racconto nuovo, aperto alla comprensione: non si limita all’impressione, ma si basa sulle esperienze vissute in prima persona. L’indiano non è più solo un selvaggio, dipinto nella sua docile e nuda condizione, ma un guerriero nobile, membro di una società ben strutturata e radicata in principi consolidati. Il nativo perde quella sua identità astratta e tratteggiata, in favore di un’identità concreta e aperta alla comunicazione con l’altro. Non a caso, Cabeza de Vaca e i suoi uomini sono i primi a creare un vero e proprio legame con l’indiano, quasi un primigenio melting pot, da cui poi è difficile poi separarsi.
Laila Lalami, memore della centralità dello storytelling nella sua cultura d’origine, riconosce l’importanza del cambio di prospettiva, ma anche del possesso di una storia da raccontare, specialmente per tutti gli uomini privati della propria individualità. Lo storytelling diviene un atto spirituale e catartico: Estebanico, come tanti altri, per troppo tempo definito da una visione razzista, prende voce e ricostruisce la propria identità attraverso la parola, non lasciandosi modellare dal racconto altrui.
La scrittrice marocchina, finalista per il premio Pulitzer, regala ai lettori un’opera profondamente radicata nel principio della relativizzazione, riscrivendo la storia con una nuova visione. Ci esorta a cambiare prospettiva nella comprensione del mondo e ci insegna a non dimenticare mai quanto sia essenziale raccontare incessantemente e sempre da diversi punti di vista.
Lalami sembra quasi rievocare il monito del mitico professor Keating ai suoi studenti de L’attimo fuggente:
Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a veder voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva.
Costanza Valdina
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