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«Crying Girl», la rivoluzione pop di Roy Lichtenstein

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3 minuti di lettura

Considerato il vero padre della Pop Art, Roy Lichtenstein realizza Crying Girl per la sua seconda mostra personale alla Leo Castelli Gallery di New York del 1963. Definita una volgarizzazione dell’espressione artistica, la tela, realizzata su un comune supporto in carta, ci introduce al tema della riproducibilità meccanica applicata al processo di creazione, che decostruisce l’archetipo dell’opera d’arte.

«Crying Girl»: analisi dell’opera

Ispirato ai cartelloni e manifesti pubblicitari del tempo, Crying Girl è un quadro dai tratti fumettistici e, allo stesso tempo, cinematografici in cui un’avvenente ragazza bionda ornata di orecchini di perle, rossetto e smalto rosso piange con enfasi, a imitazione delle dive del cinema e di una nuova società delle icone, fondata sul mito dell’eccesso. La protagonista, immortalata di tre quarti, pare in movimento, i fluenti capelli color oro sono scompigliati dal vento, mentre le folte sopracciglia nere inarcate sottolineano l’effetto drammatico della scena.

Crying Girl
Roy Lichtenstein, Crying-Girl, 1963, Offset a colori su carta, 43,8 x 59 cm, collezione privata © Estate-of-Roy-Lichtenstein/SIAE-2018

Con la tecnica del “BenDay dots” Lichtenstein illumina l’incarnato della donna attraverso la sovrapposizioni di piccoli punti di colori diversi, applicati con lo stencil e messi in risalto dai decisi contorni neri del disegno. Il risultato finale non è una composizione armoniosa e realistica, ma un accostamento di forme e tinte contrastanti che rende l’opera attraente e disturbante allo stesso tempo.

Con Lichtenstein la grafica contemporanea supera quindi il potere del pennello. L’opera non risulta più essere frutto della mano dell’artista, ma prodotto di una tecnica tipografica di tipo industriale, priva di originalità e sempre riproducibile.  

Come un provocazione, quindi, Lichtenstein mette in crisi non solo il suo status di artista, ma l’intera storia dell’arte a cui liberamente si ispira per reinterpretarla a modo suo, decostruendola.

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Meno astratto di Andy Warhol, Lichtenstein conserva un impianto di tipo figurativo, avvicinando ironicamente il mondo dei fumetti a quello della storia dell’arte. Come Monet, Lichtenstein lavora a una produzione artistica spesso e volentieri in serie che scaturisce da un’attenta osservazione impressionistica della realtà e delle sue mutazioni.

Lichtenstein studia attentamente anche la luce e sue variazioni che poi traduce attraverso l’uso di colori forti e brillanti che rimandano alle etichette dei prodotti che si trovano sugli scaffali del supermercato: eccitanti, luminosi, assuefacenti. La scelta di una gamma coloristica limitata e innaturale sottolinea la ridondanza di un modello comunicativo commerciale come strumento economico plenipotenziario in una nuova società del benessere abitata non più da cittadini ma da consumatori.

La rappresentazione di una scena chiaramente in movimento rimanda alla decomposizione dello spazio tipica del Cubismo, mentre la tecnica dei “BenDay dots” richiama l’effetto coloristico del Pointillisme di Seurat e Signac. Inoltre, l’uso di suoni onomatopeici tipici dei fumetti per i titoli delle sue opere – Whaam! (1963) – fa pensare al linguaggio del Futurismo.

Definito il «peggior artista d’America», possiamo considerare Lichtenstein il vero fondatore della Pop Art, che ne anticipa i principi e lo stile attraverso un’irriverente interpretazione della storia dell’arte e della società che lo circonda.

A proposito di Roy Lichtenstein

Nato a New York il 27 ottobre 1923 e cresciuto nell’Upper West Side di Manhattan, Roy Lichtenstein si interessa allo studio dell’arte e del design fin dai primi anni di scuola. Dopo aver studiato presso l’Art Students League di New York, si iscrive all’Università dell’Ohio, diplomandosi in Belle Arti.

File:Roy Lichtenstein (1967).jpg
Roy Lichtenstein – fonte: Wikimedia

Impegnato nella Seconda Guerra Mondiale tra il 1943 e il 1946, Lichtenstein lavora come docente universitario a Cleveland e presso la New York State University. Inizialmente di matrice cubista e espressionista, il suo stile ben presto si discosta dall’arte astratta di Rothko e Pollock per attingere a una cultura molto più popolare, destinata al basso e che circola tra la gente, protagonista degli schermi in una società di stampo audiovisivo che fa del tempo libero e del comfort a tutti i costi il suo nuovo mito.

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Appassionato di fumetti, inizia inserendo nelle sue opere personaggi dei cartoni animati, come Topolino, a cui dedica l’opera Look Mickey del 1961. La sua consacrazione avviene negli anni ’60, quando il gallerista Leo Castelli dedica all’artista newyorchese importanti mostre personali che gli apriranno le porte dell’Europa. Nel 1966 partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia, mentre nel 1968 espone alle documenta di Kassel. Tra il 1969 il 1978 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, il Centre National d’Art Contemporain di Parigi, e l’Institute of Contemporary Art di Boston gli dedicano importanti retrospettive che lo annovereranno tra i maggiori esponenti della Pop Art. Negli ultimi anni della sua vita si interessa al cinema sperimentale.

Muore per una polmonite all’età di 73 anni, il 29 settembre 1997 nella sua città natale, New York.

 


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Valentina Cognini

Nata a Verona 24 anni fa, nostalgica e ancorata alle sue radici marchigiane, si è laureata in Conservazione dei beni culturali a Venezia. Tornata a Parigi per studiare Museologia all'Ecole du Louvre, si specializza in storia e conservazione del costume a New York. Fa la pace con il mondo quando va a cavallo e quando disquisisce con il suo cane.

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