Due figure misteriose si stagliano sulla desolazione di una piazza vuota. Due statue classiche con la testa di manichini, immagini oniriche e spaventose nate dalla mente di un artista geniale, che ha fatto del sogno il proprio linguaggio e della solitudine la propria espressione. Una terza figura ci osserva da lontano, come in attesa che le due matrone si pronuncino. Le assurde composizioni sono le uniche abitanti di uno spazio vuoto: ne Le muse inquietanti di Giorgio De Chirico l’essere umano esiste come creatore, ma non si manifesta come presenza, proprio come Dio.
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«Le muse inquietanti» di Giorgio de Chirico: analisi dell’opera
Le muse inquietanti è un dipinto realizzato tra il 1917 e il 1919 da Giorgio de Chirico, fondatore della corrente artistica nota come Metafisica. Le sue opere generano un senso di estraniamento e angoscia nell’osservatore, che si ritrova solo in grandi piazze silenziose, in cui non esistono il giorno e la notte e gli unici riferimenti sono architetture severe dai colori scuri.
L’opera riassume perfettamente il concetto di smarrimento della metafisica: delle figure irreali, eppure perfettamente coerenti nelle loro parti, sono inserite in un contesto sbagliato, non naturale. Tutto è fuori posto, eppure niente è onirico o surreale. I monumenti sono riconoscibili: si tratta dei portici e del castello estense di Ferrara, le statue classiche sono verosimili, così come lo sono le teste usate dalle sarte per realizzare i cappellini da signora tanto diffusi all’epoca.
Allora cos’è a disturbarci? Tutti questi elementi funzionano singolarmente, ma è la loro unione a creare quel senso di “sbagliato” che ci assale osservando un dipinto metafisico come Le muse inquietanti di de Chirico. Gli occhi delle statue sono ciechi, eppure osservano e giudicano lo spettatore. Il silenzio ci opprime, e il vuoto si fa pesante come il cielo verde del dipinto.
La pavimentazione della piazza è fortemente scorciata, con i punti di fuga che si incontrano nella massa minacciosa del castello, di un colore rosso vivo sul cielo livido e inquinato dalle ciminiere delle fabbriche. La luce è violenta e disegna ombre nitide sul selciato geometrico, come se sulle muse silenziose fosse puntata una lampada a distanza ravvicinata.
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La scelta delle statue classiche, e non dei manichini interi come nell’opera dal nome omerico Ettore e Andromaca, rimanda al senso della memoria e del ricordo, in questo caso verso un tempo talmente lontano da apparire misterioso. Una storia muta, che parla solo attraverso l’archeologia e il teatro, a cui fanno eco la luce e il pavimento della piazza, tanto simili a un palco illuminato dai fari su cui sono pronte a far sentire la loro voce le due muse inquietanti.
A proposito di Giorgio de Chirico
Nato in Tessaglia, nel cuore della Grecia, nel 1888, Giorgio de Chirico è uno degli artisti italiani più importanti del Novecento, in particolare del periodo tra le due guerre mondiali. Allo scoppio della prima di queste Giorgio e suo fratello Alberto (anche lui grande artista) si arruolarono, trasferendosi a Ferrara.
L’arte di Giorgio si espresse al meglio in quel periodo, grazie anche all’incontro con i soldati Carlo Carrà e Filippo de Pisis. Alla fine della guerra le Avanguardie erano un lontano, gioioso ricordo degli anni precedenti agli orrori del conflitto. Tra gli anni Venti e Trenta la pittura italiana seguì un graduale “ritorno all’ordine”, con una ripresa della pittura figurativa e degli stilemi tipici del Rinascimento.
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De Chirico e la sua cerchia di amici artisti seguirono questa generale corrente di pensiero, declinandola in una variante unica: la Metafisica. L’oggetto, la prospettiva e l’uso della luce erano allo stesso tempo classici e moderni, fedeli alla linea del regime e sottilmente ironici e trasgressivi. Il lavoro di De Chirico attraversò tutto il Novecento, rendendolo un artista di riferimento per il mondo accademico italiano. Morì a Roma nel 1978 a 90 anni, poco dopo essere stato celebrato in Campidoglio dalle istituzioni e dagli intellettuali d’Italia.
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