Una fotografia non cattura semplicemente un istante. Uno scatto imprigiona per sempre tutto ciò che l’ha preceduto, ogni evento, azione o circostanza che, combinandosi nella perfetta e irripetibile proporzione, concorre alla sua realizzazione. Scorrendo l’albo d’oro del World Press Photo of the Year non si passa in rassegna soltanto un almanacco di mirabili fotografie, ma una biblioteca di storie non meno memorabili, e spesso più sfocate. Ecco la storia vera dietro ad alcuni scatti celebri che abbiamo scelto di raccontarvi.
L’incredibile storia del generale Loan, l’assassino del più celebre scatto della guerra del Vietnam
Iniziamo questa raccolta di “Storie vere dei scatti celebri” con «We know who you are, murder!» dice la scritta tracciata a vernice rossa comparsa durante la notte sulle vetrate del locale. Il proprietario è un immigrato asiatico dall’aspetto più americano di molti bianchi caucasici, ferma la Lincoln davanti all’ingresso. Sono le cinque meno un quarto di mattina. È l’ennesima scritta che vandalizza la sua facciata nelle ultime settimane. Per comodità, abitudine, si presenta come Jonathan Li Smith, ai pochi clienti a cui rivolgere la parola. Profilo basso nonostante i soldi non gli manchino, è un uomo che tiene alla mimetizzazione. Prima dell’alba, inizia a tartassare l’ufficio dello sceriffo della contea di Fairfax al quale ha già sporto il massimo consentito di denunce contro ignoti, così almeno gli ha detto l’esasperato sceriffo. È negli Stati Uniti da otto anni, il suo inglese è perfetto, quasi quanto il suo francese o lo khmer, riesce perfettamente a replicare l’endemica mancanza di gusto del luogo in cui vive.
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Saigon è capitolata, il Programma Apollo si è dissolto nel quasi totale anonimato all’undicesima missione con equipaggio, l’Apollo 17, unico lancio notturno da Cape Canaveral del programma, ammarato nell’Oceano Pacifico al termine di una crociera di otto giorni il diciannove dicembre del 1975. Gli ultimi elicotteri Huey vengono gettati a mare per compensare il sovraccarico umano dei navigli dell’U.S. Navy che trasportano gli esodati attraverso il Mar cinese meridionale.
Non sono molti i ristoranti etnici così a sud di New York, men che meno quelli che mescolano cucina del sud est asiatico, piatti italiani e sporcizia americana nello stesso menù. Potrebbe essere benissimo l’unico posto del genere in Virginia, e probabilmente è così. “Les Trois Continents” ha aperto a Burke, venti miglia scarse a sud-ovest di Washington D.C., pochi mesi dopo la conclusione dell’Operazione Frequent Wind, sotto la quale si raccoglievano i piani d’evacuazione della vecchia capitale indocinese.
Il titolare è un vietnamita piuttosto colto, affabile, stempiato, gli occhi incavati e il cranio ellittico, col brutto vizio di stringere le sigarette tra i denti fin quasi a dilaniarle. Non ha avuto problemi a raggiungere gli Stati Uniti prima d’essere travolto l’impietosa ondata umana dell‘Esercito di Liberazione Popolare nordvietnamita, preparata dai Charlie, le quinte colonne della milizia Vieth Minh nel territorio del Delta del Mekong. I documenti lo aspettano a La Guardia, per lui e la sua famiglia. Perlomeno, quella parte di famiglia che la guerra ha risparmiato. E soldi per aprire un’attività, forse più di una, abituarsi agli abiti civili e grattarsi via l’aspetto del soldato.
Quell’uomo si chiama Nguyễn Ngọc Loan è stato un Topo Bianco, e non uno qualsiasi. Ufficiale della polizia politica nella Repubblica del Vietnam, lo stato del Vietnam del Sud, retto da Nguyễn Văn Thiệu. Nonostante i dieci fratelli, gli stomaci della famiglia non hanno mai brontolato molto.
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Suo padre era un abbiente ingegnere inserito nell’amministrazione francese. Da piccolo, durante l’occupazione giapponese, la paura non ha risparmiato neanche loro, ma De Gaulle riprese l’Indocina immediatamente dopo la fine della guerra, e tutto volse di nuovo per il meglio.
Studia farmacia all’università di Hué, espatria per qualche tempo e ritorna in Vietnam per arruolarsi nell’aviazione, appena un anno dopo i clamorosi fasti di Dien Ben Phu e la leggendaria impresa del generale Võ Nguyên Giáp, il Bonaparte dell’esercito di Hồ Chí Minh. Nel sessantasei, a Hué scoppia una feroce rivolta buddista. Lui è al comando di una colonna motorizzata della polizia incaricata dei rastrellamenti. L’operazione gli vale la nomina a Comandante generale della Polizia.
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Porta i galloni da generale quando i nordvietnamiti lanciano l‘offensiva del del Têt, il capodanno vietnamita, l’ultimo giorno di gennaio del 1968. L’attacco procede da due giorni, la vergogna per l’impreparazione generale e la frustrazione per una carneficina dalle pieghe imprevedibili, producono la più inevitabile delle deflagrazioni belliche: la rappresaglia. E il generale Nguyễn Ngọc Loan è un esperto della specialità.
Un drappello di soldati in smock mimetico della Repubblica del Vietnam cammina lemme per strada davanti a una cinepresa della BBC, scortano un prigioniero in camicia a quadri e calzoni corti.
La vittima, il Viet Cong Nguyễn Văn Lém
Altra storia vera dei scatti celebri: 1 febbraio 1968. Nguyễn Văn Lém, questo il suo nome. Soldato irregolare Viet Cong; un Charlie, dunque un bandito, un sabotatore, una spia cinese, una carcassa che non può impugnare alcun diritto internazionale. La cinepresa a trentacinque millimetri continua a girare, ma non è l’unico occhio onnisciente puntato sulla scena. Una scena di ordinaria follia quotidiana a Saigon, ma destinata ad elevarsi a un grado di immortalità quasi pari al Giuditta e Oloferne del Caravaggio – e non solo in termini di crudeltà.
Dando le spalle all’obiettivo, speculare al prigioniero ammanettato – che volge gli occhi all’obiettivo –, il generale, in divisa statunitense, estrae il suo revolver calibro trentotto in acciaio cromato, abbassa il cane e con un movimento di collaudata fluidità lascia partire un colpo alla tempia a bruciapelo. La macchina di un reporter dell‘Associated Press pietrifica l’ultimo istante del guerrigliero, i capelli scompigliati dall’onda d’urto, l’istante dell’impatto, i frame progressivi della caduta a terra. La cinepresa filma l’intera sequenza: il corpo che cade, il fiotto di sangue che sgorga dal foro nel cranio. Pochi minuti in tutto per un evento la cui eco non che riverbera tutt’ora.
Il presupposto secondo cui sarebbe legittimo violare le Convenzioni belliche contro nemico che le viola a sua volta domina ogni conflitto, da molti secoli prima dell’avancarica. I Viet Cong, agendo senza divise e senza distintivi di riconoscimento, non erano soggetti ad alcuna tutela, nonostante neppure la Repubblica del Vietnam prevedesse esecuzioni sommarie senza l’intermediazione di una corte e garantisse un formale diritto di habeas corpus per i criminali comuni, com’erano considerati i Viet Cong. Nguyễn Văn Lém era accusato di aver sgozzato un ufficiale sudvietnamita, sua moglie e cinque membri della famiglia del generale Loan come ritorsione per il rifiuto di un suo famigliare di spiegare alcuni funzionamenti dei carri Sherman catturati dall’Esercito del Nord. Saigon accusò Lém di aver supervisionato e ordinato, in qualità di ufficiale superiore sul campo, la fucilazione di trentuno civili durante la stessa operazione, benché niente di tutto questo sia mai stato accertato oltre ogni ragionevole dubbio. Si basa anzi sulle dichiarazioni rilasciate su suolo americano una volta emersa la sua vera identità, e di alcuni parenti sentiti dalle autorità federali. Poco dopo il conferimento del Premio Pulitzer, il reporter Eddie Adams, autore dello scatto, espresse pareri poco lusinghieri verso la sua opera:
Brutta luce, brutta composizione, brutta fotografia. Scattai una volta sola. Il ragazzo cadde spruzzando sangue ovunque, io mi voltai dall’altra parte e fotografai delle colonne di fumo che si alzavano da degli edifici in fiamme. La foto non racconta la storia. Il generale fuggì negli Stati Uniti: faceva il pizzaiolo». Non molto tempo dopo, sulle colonne del Times, Adams, a proposito del generale Loan disse che se aveva ucciso il Viet Cong con la sua pistola, allora lui aveva a sua volta ucciso il generale usando la sua macchina fotografica. «Le immagini fotografiche sono le armi più potenti del mondo. La gente ci crede ma le fotografie mentono anche quando non sono manipolate. La fotografia mente sempre. Sono solo una mezza verità. Ciò che lo scatto non dice è: cosa avreste fatto voi al posto del generale in quello stesso momento, in quello stesso posto, in quel giorno caldo, se aveste catturato il cosiddetto cattivo dopo che aveva fatto fuori due o tre soldati americani? Siete davvero certi che non avreste tirato il grilletto voi stessi?»
Eddie Adams fotografò oltre tredici conflitti, morendo nel 2011 a causa del morbo di Gehrig, col rimpianto di non essere ricordato per gli scatti dei cinquanta vietnamiti salpati su un incerto peschereccio per chiedere asilo all’occidentalissima Thailandia; solo per essere riportati in mare aperto dalla marina costiera. Avrebbe voluto che il suo nome si legasse a una fotografia capace di qualcosa di buono. ll Generale Nguyễn Ngọc Loan mentre giustizia un prigioniero Việt Cộng a Saigon (General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon) è uno dei marchi più indelebili del secondo Novecento, una delle più vivide testimonianze della bassezza umana. Una foto impietosa, che pretese più di una vita. Secondo l’uomo che premette l’otturatore, morirono tutti e tre. La vittima, l’assassino e il reporter che li consegnò al mondo.
Il reporter Yasushi Nagao e la prima morte in diretta della storia giapponese
Proseguiamo la nostra raccolta di “Storia vera dei scatti celebri” con la foto del 12 ottobre 1960 del reporter trentenne Yasushi Nagao. Inviato da Mainichi Shinbun allo Hibiya Hall di Tokyo per un comizio di Inejirō Asanuma, guida del Partito socialdemocratico giapponese e anima della sua ala socialista. Asanuma è un convinto sostenitore della politica di Mao Tse-Tung, un traditore agli occhi dei molti conservatori e fedeli dell’ex imperatore Hirothito che ancora dominano la politica del paese. Il municipio di Tokyo ospita un gremito dibattito pubblico riguardante le elezioni alla Camera e il nuovo accordo bilaterale con gli Stati Uniti, milioni di persone lo seguono in televisione e alla radio. Sono molte gli obiettivi in prima fila, i lampi di magnesio abbagliano i relatori sul palco. Giovani in completo scuro dello Uyoku dantai, una lega ultranazionalista, contestano gli interventi. Uno studente diciassette attende acquattato in un angolo del palco. Nagao ha appena sostituito il suo obiettivo quando nota l’intruso avvicinarsi alle spalle di Asanuma.
Gli scatti di Nagao mostrano il ragazzo estrarre una katana e, impugnandola a due mani, affondarla verso il ventre del politico. Due volte, all’addome la più profonda, un’altra a lato del torace. Il giovane Princip venne arrestato e tenuto in completo isolamento in una struttura per minori. Si impicca meno di un mese dopo la morte del presidente socialista, avvenuta in ospedale, citando le parole di un samurai del quattordicesimo secolo, in un epitaffio vergato sul muro con una miscela d’acqua, dentifricio e bianco d’uovo. Come sarebbe successo ad Adams sette anni dopo, nel 1968, anche Yasushi Nagao vinse World Press Photo of the Years e Premio Pulitzer, nel 1961.
Il dramma e la cinepresa: il seppuku del premio Nobel Yukio Mishima
25 novembre 1970. Le macchine da presa e gli obiettivi avrebbero avuto altre grandi e drammatiche storie da raccontare in Giapponese. La più teatrale, concepita e sacrificata sull’altare di una drammaturgia totale, è senz’altro l’assalto-kamikaze di Yukio Mishima e i suoi discepoli all’ufficio di un generale del nuovo esercito. Immerso anche lui nella mistica dello shogunato, avverso a una nazione che affida all’esercito una vacua funzione d’autodifesa, a un impero rinnegato che si traveste da repubblica, fonda, negli ultimi anni di vita, il Tatenokai, la “Società degli Scudi”; sorta di massoneria esoterica, articolata come un’antica casta samurai, di fatto un esercito privato di adulatori e amanti del maestro di spada Mishima. Appoggiato da quattro fidatissimi luogotenenti, a quarantacinque anni e ancora sorretto da un fisico scultoreo, senza l’ombra d’un acciacco e ben lontano da qualunque forma d’invecchiamento visibile, Mishima attacca l’ufficio del generale di divisione Mashita, dell’Esercito di Autodifesa.
Conquistato l’edificio ed esposti vessilli della Società, dopo aver chiamato a raccolta giornalisti e operatori, Mishima tiene la sua ultima arringa dal balcone dell’ufficio. Stretto in una divisa stirata alla perfezione, il cranio rasato e le vene rigonfie, il maestro scandisce i suoi anatemi davanti a un migliaio di imberbi reclute di fanteria. Condanna la nuova costituzione, il trattato di pace di San Fransisco, l’occidente, i concittadini ignavi. Sale sul parapetto e si mostra alla posterità con l’orgoglio di un leone.
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Claudia Andujar e la lotta Yanomami
Rientrato nell’ufficio, riformula il giuramento di fedeltà all’Imperatore e s’inginocchia per il suicidio rituale. Ad assisterlo nel seppuko, il suo più fedele discepolo e compagno di letto negli anni dell’esaltazione. A lui è affidato il taglio finale del capo con la spada. Forse un’esitazione, un ripensamento, la paura, forse solo un lampo di lucidità, ma il fendente rallenta e la lama si blocca nella carne. Con le lacrime agli occhi, strillando per la vergogna, deve ritentare. La polizia, presi in consegna gli altri tre miliziani, gli concede l’onore di provvedere per sé. Quando fa irruzione, l’amante giace inginocchiato accanto al suo amante guerriero, il premio Nobel Yukio Mishima. Immortalo fino alla fine dei tempi, nelle vesti del condottiero privato della causa.
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