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I funerali di Don Vittorio Casamonica e il silenzio della Curia: apologia della mafia (che c’è)

In un’atmosfera a metà tra la Sicilia anni ’50 e un film con Al Pacino, è andata in scena una vera e propria «apologia della malavita» per il funerale di Vittorio Casamonica. Istituzioni e curia: silenzio assenso.

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Una carrozza nera trainata da cavalli, petali di rosa lanciati da un elicottero che, indisturbato, sorvola i cieli del quartiere Tuscolano. Musica di Nino Rota ad accompagnare il feretro trasportato in Rolls Royce e applausi scroscianti sul sagrato di una chiesa.

No, non è una scena de Il Padrino di Francis Ford Coppola ma il funerale di Vittorio Casamonica, re della criminalità romana e (cog)nome di spicco dell’inchiesta Mafia Capitale. Che il mito di Don Corleone abbia affascinato la famiglia di sinti prestati al malaffare è del resto cosa nota, e non è certo la musica del kolossal coppoliano a svelarlo. Chi non ricorda lo speciale di Servizio Pubblico che aveva aperto le porte della real magione alla Romanina? Una spremuta di arredamento kitsch, con letti a baldacchino e specchiere decorate a piume nere che hanno fatto impallidire la vasca a conchiglia dei camorristi Giuliano ospiti di Maradona. Si sa, poi, che per gli uomini “d’onore” la morte è specchio dell’esistenza terrena e che, parafrasando il Gladiatore di Ridley Scott, ciò che si fa in vita riecheggia nell’eternità: ecco allora lo sfarzo esagerato, la pacchianeria ostentata e i manifesti inneggianti a «Casamonica Re di Roma» che, dopo aver conquistato la città «conquisterà il Paradiso».

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Ora, che i Casamonica siano amanti del trash ben poco importa, che vogliano rendere l’estremo saluto al caro defunto resta affar loro, ma nel momento in cui ciò avviene nel totale silenzio assenso delle istituzioni e della Curia, qualcosa stride. In un’atmosfera a metà tra la Sicilia anni ’50 e un film con Al Pacino versione gangster, è andata in scena una vera e propria «apologia della malavita». Il messaggio è pesantissimo e, come ha affermato giustamente Lirio Abbate, «alla vigilia del maxi processo contro Mafia Capitale, i romani sanno che uno dei Casamonica può essere omaggiato in quel modo in pieno giorno». Adesso che è cominciato lo scaricabarile, tra un sindaco sempre più paludato nei suoi abiti di brava persona incapace di gestire il marciume che ha attorno, un nuovo prefetto che da Pecoraro sembra aver ereditato non solo la poltrona ma anche l’attitudine pilatesca e un ministro dell’Interno che non ha bisogno di presentazioni, è la posizione della Curia Romana a sconcertare di più. Senza troppi problemi ha concesso l’uso della chiesa di San Giovanni Bosco per tributare l’ultimo omaggio a un boss del racket e dell’usura e, con altrettanta naturalezza, ha schivato le critiche trincerandosi dietro un laconico «sarebbe toccato ad altre istituzioni intervenire». Di certo il parroco Giancarlo Manieri ha apprezzato molto la compostezza della famiglia durante la celebrazione: «In chiesa si sono comportati in modo impeccabile. Nessun gesto fuori posto o segno di sfarzo particolare», ha dichiarato in un’intervista a Repubblica in cui, per niente turbato, dichiara di «non essersi accorto di nulla». La forma dunque, ancora una volta, trionfa sulla sostanza. Non era del resto un gran benefattore quell’Enrico De Pedis sepolto fino a pochi anni fa in Sant’Apollinare? Poco importa che fosse uno dei boss più noti della Banda della Magliana, colpevole di crimini appurati e di altri bisbigliati; un momento per donare i (suoi?) soldi alla Chiesa lo aveva sempre. Se si è omaggiato Renatino, perché negare quest’onore a Don Vittorio, devoto a Padre Pio (vedere gigantografia sulla bara) e cattolico più o meno praticante? Del resto, fonti del Laterano hanno dichiarato all’ANSA che «il parroco ha valutato in base alle norme del diritto canonico e non poteva rifiutare».

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Peccato che di rifiuti la Chiesa non è mai stata parca, e proprio in San Giovanni Bosco erano state negate nel 2006 le esequie religiose a Piergiorgio Welby che, da anni malato di distrofia muscolare, aveva manifestato pubblicamente la volontà di sospendere l’accanimento terapeutico sulla sua persona. Il Vicariato, dove allora sedeva Camillo Ruini, motivò così la sua posizione: «Con i suoi gesti si è messo in contrasto con la dottrina cattolica». Già, mentre con lo spaccio, il racket e l’usura si è perfettamente in linea con la morale e l’insegnamento di Dio. Il caso ha voluto che il piazzale dove si si sono svolti i funerali laici di Welby fosse, anni dopo, lo stesso dove è andato in scena lo squallido addio trionfale a Vittorio Casamonica. La colpa dell’attivista radicale era quella di combattere per il diritto all’eutanasia, di portare avanti una lotta dura e pubblica che lo ha condotto a ricevere, dopo la morte, un vigliacco no alla cerimonia religiosa da parte della Curia. La stessa Curia che, per i malavitosi, o ricorre all’inchino oppure, incredibilmente, trova sempre un posto “in Paradiso”.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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