Un discorso non ha soltanto un diverso senso a seconda del contesto o degli ipotesti e ipertesti correlati (chiamiamola differenza ermeneutica). Esso ha anche una diversa funzione a seconda dello spazio complementare al discorso. Ossia, c’è una differenza d’ordine che involve il discorso quand’esso è preso da determinate pratiche non-discorsive (istituzioni, procedure, media, eccetera) che lo accompagnano.
Ciò significa, ad esempio, che studiare la pandemia tramite la lente della biopolitica in un corso di filosofia teoretica all’università è diverso dal parlarne su giornali o blog, in quanto, nel primo caso, vi sono delle rigorose regole discorsive da rispettare, delle procedure d’autenticazione del discorso, dei campi di validità, delle relazioni epistemico-politiche definite, e, soprattutto, un’informale carità ermeneutica (o un senso di revocabilità del discorso) che non permettono il balzo assolutizzante della chiacchiera. Invece, di fronte a un pubblico informale, in istituzioni o tramite media diversi, ognuno con le proprie procedure d’autenticazione interna, il discorso può facilmente delegittimarsi in chiacchiera, piegarsi o disgregarsi in parola inautentica, strumentale, in caciara. Può cioè mutare la sua funzione enunciativa.
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Questa differenza discorsiva porta con sé almeno due problematiche: la prima circa i limiti della divulgazione, ossia ciò che potremmo chiamare “i limiti dell’Illuminismo”. Vi è cioè uno scacco insito nella diffusione libera delle nozioni scientifico-accademiche causato dalla non complementare diffusione delle metodologie e delle procedure che producono quelle nozioni.
Il secondo problema è meno rilevante sub specie aeternitatis, ma è certamente doveroso: anche questo discorso, questo dire qui, scritto su questa rivista, è un discorso che in qualche modo fuoriesce dal sapere recluso degli specialisti per parlare ad altri con altro linguaggio. Ossia, anche questo discorso che vuole dire qualcosa sui limiti dell’Illuminismo è esso stesso prodotto di quei limiti.
I limiti dell’Illuminismo o lo scacco della divulgazione
Ciò che determina un enunciato non è il suo significato astratto, ma la procedura concreta che lo definisce, le strategie di sapere che lo originano come enunciato. Un significato non si può staccare dal suo senso, un enunciato dall’a priori che lo genera, dalla pratica che gli stabilisce esattamente un posto nelle ramificazioni del discorso. Prendiamo un esempio caldo: la pandemia di Cov-Sars-2. Vi sono stati e vi sono tuttora parecchi discorsi circa la pandemia. Discorsi politici, economici, simbolici, epidemiologici, filosofici, terapeutici, chiacchiere, descrizioni, informazioni.
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Fra i discorsi politico-filosofici è emersa una serie di interventi che hanno fatto molto discutere e chiacchierare: gli articoli di Giorgio Agamben, che sul blog della casa editrice Quodlibet ha pubblicato varie, importanti e controverse riflessioni circa le restrizioni delle libertà personali adottate dai governi europei per fronteggiare l’epidemia, da cui è stato poi tratto un libro intitolato A che punto siamo? L’epidemia come politica.
Giorgio Agamben utilizza gli strumenti dell’interpretazione biopolitca, di cui è profondo utilizzatore (si veda Homo Sacer su tutti), ma senza lo spazio complementare dove l’analisi biopolitica si esercita normalmente né in riferimento a un pubblico che di quelle analisi conosce il peso specifico e relativo. Ha gettato le sue analisi nell’esposizione mediatica, fra le parole irriflesse della chiacchiera, ingenerando misinterpretazioni e assolutizzazioni. Ora, non approfondiremo il discorso di Agamben e le reazioni che ha suscitato, argomenti che su Frammenti Rivista sono stati diverse volte affrontati da diversi autori. Ci limiteremo a constatare un evento singolare: che un discorso d’origine accademica, divulgato, perde il suo significato se perde le procedure di controllo, autenticazione, ricezione e normalizzazione che lo definiscono, appunto, come discorso accademico.
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Ciò su cui la divulgazione pecca (e non potrebbe fare altrimenti) è questa trasmissione delle regole di formazione del contenuto; trasmissione che permette di stabilire una relatività della nozione, una sua posizione e un suo peso, altrimenti aleatori e arbitrari.
Il sogno di una società che tenda all’enciclopedia totale, alla formazione continua dei componenti, alla circolazione e diffusione di idee intatte e chiare, si scontra con la condizione di esistenza delle nozioni stesse, col loro essere innanzitutto un abito di risposta al reale, formato da determinate pratiche e regole nel quale il locutore si situa soltanto come maschera momentanea di una soggettività teoretica fondata da un sapere essenzialmente anonimo.
Il locutore di un sapere, per essere tale, dev’essere iniziato, allenato, macchinato da quel sapere, dev’essere trasformato dalle regole e dalle pratiche di quel sapere in locutore. Bisogna pensare al sapere come a una macchina che si attacca al corpo, a un dispositivo che si aggancia ai lembi superficiali della pelle e che infila lentamente, col tempo, nelle più profonde nervature dell’individuo i suoi rampini; a una macchina che macini il corpo.
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Il soggetto conoscente non è bell’e pronto a ricevere un’impressione, a produrre un’idea, a formulare un giudizio prima che la macchina l’abbia divorato. Prima della macchina c’è solo il «che c’è puro e semplice», come direbbe Carlo Sini, la firstness perciana, ossia l’indistinto bagliore del mondo. Con ciò, una divulgazione che faccia a meno del metodo e dello stile di ricerca del sapere da divulgare non divulga un sapere, ma soltanto il suo prodotto.
La divulgazione, presa in sé stessa, opera sul limite fra sapere specializzato e sapere comune, inscrive una cerniera fra i due saperi, una linea discendente che tramite le nozioni del sensorio rielabora e traduce l’ignoto sapere specialistico. Operazione paradossale, di comunicazione fra due mondi pratico-teoretici: essa tenta di ristabilire sulla terra della quotidianità il cielo delle idee specialistiche, di ritrarle nel grembo che le ha generate. Le sue regole di formazione non sono le medesime del sapere che traduce; esse rispondono alle regole del sapere comune, ne sono tutelari. In questo senso formano un discorso diverso dal discorso specialistico, benché sia parassitario dei suoi contenuti. Ma la divulgazione può attuare quest’operazione di traduzione soltanto perché il sapere specialistico ha una relazione col sapere comune.
La chiacchiera e il sapere
Che cosa vuol dire che un discorso accademico diventi chiacchiera? Che cambiano gli enunciati che lo circondano, i referenti correlati ai quali si riferisce e che produce, le pratiche non-discorsive che lo accompagnano e lo certificano, che gli conferiscono una struttura. Che cambia cioè l’intero orizzonte donde si genenera, si muove e si mantiene un discorso.
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La chiacchiera è un termine che prendiamo un prestito da Martin Heidegger, il quale ha scritto cose profonde su questo argomento, ma noi non seguiremo il suo percorso. La chiacchiera, il modo di discorrere del si dice, è una determinazione del discorso di tutti e di ciascuno ma non è, innanzitutto, il discorso di tutti e di ciascuno. È piuttosto un modo di questo discorso anonimo. Heidegger tenta di definirla positivamente, come «la possibilità di comprendere tutto senza alcun appropriazione preliminare della cosa da comprendere».
Al polo opposto della chiacchiera potremmo mettere il discorso scientifico e più in generale il sapere specialistico o accademico (Heidegger sicuramente non condividerebbe). Si noti bene, accademico definisce un luogo discorsivo o mediatico. Sarebbe più corretto elencare i molteplici luoghi del sapere specialistico: il discorso laboratoriale, il discorso delle riviste di fascia A, il discorso delle aule universitarie, il discorso dei libri di filosofia (e forse anche i discorsi che si scambiano informalmente un’équipe di scienziati, anche se costitutisce solo informalmente e non formalmente il discorso scientifico).
Vi è tutta una ramificazione discorsiva in ciò che noi chiamiamo in una parola “discorso”. Ramificazione complessa che non è soltanto costituita dalle pratiche discorsive formalmente accettate ma anche da vasti rivoli di enunciati informali, di confidenze, di annotazioni diaristiche, di discorsi comuni, tutte cose ben poco scientifiche o accademiche che nondimeno costituiscono l’orizzonte quotidiano donde si staglia il sapere specialistico. In breve, siccome la chiacchiera, anche il discorso specialistico è costituito dalla Lebenswelt, dal mondo-della-vita, dal si dice e dal si fa di tutti e di ciascuno. È cioè prodotto di anonime pratiche quotidiane benché da esse si distacchi e come si distanzi. Ciò che dà un distacco è un’autenticazione interna che lo stesso discorso si pone, una soglia di epistemologizzazione e di scientificità che esso dispone per sé. Eppure condivide con quell’anonimo mondo-della-vita l’essere un sapere fra gli altri, un discorso fra i discorsi.
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Ora, questa complessa articolazione è ciò che ci interessa; è forse in questa contiguità che troviamo il bandolo del problema sopra esposto: discorso comune, chiacchiera e discorso specialistico condividono il terreno ed anzi il primo fonda gli altri. Di più: la chiacchiera s’appropria del contenuto (non del metodo, non delle procedure, solo del contenuto) del discorso scientifico proprio in virtù di quella comunanza di terreno costituita dal discorso comune. Certo, chiacchiera e discorso specialistico spesso retroflettono sul mondo-della-vita i loro discorsi, li intrecciano con le pratiche quotidiane fino a smarrirne la differenza di posizione. E così troviamo che in una data epoca un dato gruppo sociale pensa qualcosa di assolutamente infondato come se fosse una verità assoluta. Tali altre volte una nozione accademica o un metodo penetrano a tal punto nel quotidiano senza perdere la loro specificità da diventare pratiche fondanti della quotidianità stessa (si pensi alla tecnologia).
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Forse dovremmo caratterizzare meglio la chiacchiera, sia essa giornalistica, televisiva o da bar, perché anch’essa ha delle regole di formazione, benché lontane dalle regole dei discorsi scientifici o, più in generale, epistemici. Per ora dovremo accontentarci di indicare la chiacchiera come un puro negativo contro cui cozza il discorso specialistico, pur condividendone la liminarietà del sapere comune.
L’occhio che guarda, la bocca che parla
Ultimo appunto, che delina l’assetto di una problematica costante. Questo sapere che qui, in questo articolo, parla di un certo sapere e dell’articolarsi complesso di tre saperi distinti ma porosi, continuamente compenetrantesi; questo sapere che si pone arrogantemente a meta-sapere col proposito di indagare i rapporti stessi del sapere, di doppiarli, di ripeterli in un discorso unitario tramite vocaboli un po’ rubacchiati dalla cultura filosofica e un po’ dal senso comune; questo sapere che ora parla è, in ultima istanza, un discorso della stessa articolazione che indaga.
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Proprio in quanto articolo divulgativo, che si espone su un media particolare come l’internet, che parla una lingua ibrida, composta da enunciati settoriali trasfusi in una grammatica comune, questo discorso non è esente dal limite che indaga, è anzi frutto di quello stesso limite, tentativo di continuare, così come può, la formazione continua di un’enciclopedia totale. Esso ha certamente delle differenze rilevanti in confronto ad un discorso divulgativo in sé: una differenza di livello del locutore, che in questo caso non sa esattamente il contenuto divulgato, ma lo trova man mano che scrive; di conseguenza, una differenza di oggetto, che in questo caso è prodotto immanente del discorso che si occupa dell’articolazione fra chiacchiera e sapere, e non un contenuto esterno al discorso divulgativo dal discorso divulgativo ripreso; infine, una differenza di modalità, perché costantemente il discorso tiene d’occhio la sua origine problematica, quella differenza costitutiva tra nozione e metodo, e cerca, in qualche modo, di rimandarla all’uditore. Potremmo definire questo discorso semi-divulgativo, prodotto di ciò che indaga, una malformazione a un tempo del discorso divulgativo e del discorso specialistico. Ma una malformazione consapevole, autocosciente, una teratologia di quel limite che separa così insensibilmente sapere comune ed episteme.
In questo senso, in quanto parassitario del discorso comune e del discorso specialistico ma indagante questa eteronomia, è un discorso la cui forma è il suo stesso contenuto e viceversa, ossia un sapere che attua un tropo su sé stesso, che capovolge l’occhio, che indica il suo stesso indice. Il problema è evidente: come produrre una verità circa ciò che è stato detto con gli strumenti di ciò che è stato detto? Come dare debitamente conto all’occhio che guarda, alla bocca che parla, alla mano che scrive? Come, cioè, ribadire al discorso che esso è un discorso, che pure se parla di corpo è un corpo che col suo fiato lo spira? E come dire al corpo che tutto ciò che dice lo dice come lo dice perché c’è il discorso, un discorso, questo discorso che l’ha ispirato?
Immagine di copertina: Photo by Dima Pechurin on Unsplash
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