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Maria Pasquinelli | Uomini in rivolta

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5 minuti di lettura

Il 10 febbraio 1947 Maria Pasquinelli, sconosciuta maestra elementare di Firenze, uccide a Pola il generale britannico Robert de Winton. Dice di farlo per la patria e accetta impassibile la condanna a morte prima e l’ergastolo poi. Nel 1964, chiesta la grazia, uscirà di prigione e scomparirà dalla vita pubblica

I 40 giorni di Tito

Negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale ci fu, tra gli alleati e i militari jugoslavi, una vera e propria corsa per la presa di Trieste, considerata “città aperta”. I primi ad arrivare, l’1 maggio 1945, furono i titini, nella loro avanzata trionfale che aveva travolto anche Pola e la Venezia Giulia. Insediatisi ufficialmente il 3 maggio, i militari di Tito cominciarono una sommaria e violenta epurazione contro le presunte autorità fasciste della città (gli slavi, memori delle violenze fasciste, cercavano vendetta). I “40 giorni di Tito” rimangono non per nulla ancora oggi nella memoria dei triestini come giorni di ferocia in cui si colpirono non solo i fascisti ma anche i molti filo-italiani, nonché i partigiani “azzurri” badogliani (da non dimenticare è la repressione nel sangue della manifestazione pro-Italia del 5 maggio). Il clima di terrore era dovuto alle scorribande dei titini che “prelevavano” i presunti colpevoli per infoibarli, fucilarli o raccoglierli nel campo di concentramento di Borovnica, dove si moriva spesso di stenti e violenze.

Civili italiani arrestati da partigiani titini
Colonna di poliziotti, militari e borghesi italiani arrestati (uno degli obiettivi era colpire lo stato italiano e i suoi rappresentanti)

Dopo Tito

Le truppe neozelandesi arrivarono a Trieste il 12 giugno per prendere possesso dello strategico porto scacciando i militari jugoslavi, così come a Pola. Nei giorni successivi Trieste e la Venezia Giulia vennero divise in una zona di occupazione alleata e una jugoslava. Sia Trieste che Pola rientrarono nella zona A alleata. In quei giorni iniziarono le prime trattative tra l’Italia, gli Alleati e la Jugoslavia per la spartizione dei territori. La Jugoslavia voleva Pola e la Venezia Giulia ma gli Alleati si opponevano, per non lasciare a un paese comunista delle posizioni così strategiche per un eventuale attacco all’occidente. Iniziava a definirsi lo scontro interno alle grandi potenze (USA-URSS). L’Italia, con la sua poca voce in capitolo, premeva per avere Trieste ma soprattutto Monfalcone e Gorizia (importanti economicamente). I cittadini polesi, dal canto loro, chiedevano invece l’annessione all’Italia, minacciando di abbandonare Pola in caso contrario.

maria pasquinelli
La popolazione festeggia le truppe alleate in Piazza Unità

La strage di Vergarolla

Ore 14:15, 18 agosto 1946. A Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, si sta svolgendo una manifestazione sportiva. Ci sono quasi tutti i giovani della città e l’atmosfera, dopo duri mesi, sembra festosa. All’improvviso un boato. Dal centro di Pola si vede una lunga colonna di fumo nero che sale al cielo. 65 morti. Arti e corpi irriconoscibili galleggiano in mare. 21 bare non avranno nome. Decine di mine, disinnescate ma contenenti ancora tritolo, sono esplose. Le indagini vanno avanti ma i cittadini polesi non hanno dubbi: è stato un attentato, le mine erano state controllate tre volte. Anche gli inglesi, nella loro relazione finale, dopo l’esame delle testimonianze, concludono che ci fu il dolo. Le indagini non daranno però colpevoli.

La relazione finale delle indagini, dove si legge “The ammunition was deliberately exploded by person or persons unknown”

L’esodo polese

I polesi, memori delle violenze subite dai titini, si convincono che questo è l’ennesimo atto di intimidazione e iniziano a lasciare la città. Salgono sulla nave “Toscana” portando di tutto, persino i morti disseppelliti e cremati e delle pietre prese dallo storico anfiteatro romano della città. Se ne andranno in 28.000 da una città che superava di poco i 30.000 abitanti. Salgono su un treno, non per nulla detto della vergogna, e capiscono che per loro non c’è patria. I loro compatrioti infatti, li prendono a sassate e gli impediscono di mangiare. Erano “fascisti” che scappavano dal “paradiso proletario”. Ma prima che accadesse tutto questo, una maestrina elementare di Firenze portava avanti delle indagini molto particolari. Il suo nome era Maria Pasquinelli.

Arena di Pola: l'anfiteatro romano costruito per combattimenti dei  gladiatori - Šimuni
La cittadina di Pola con la sua arena

Chi era Maria Pasquinelli

Di Maria Pasquinelli si possono dire solo due cose: era una donna coraggiosa e profondamente fascista. Nata a Firenze il 16 marzo 1913, aderì ventenne al PNF, frequentando anche la “scuola di mistica fascista”. Allo scoppio della guerra divenne crocerossina. Nel novembre 1941, però, si stancò di fare iniezioni e decise di combattere in prima linea. Vestita da uomo e rasata, si recò sui campi di battaglia. Scoperta, fu rimandata in ospedale. Dopo poco venne mandata a Spalato a fare la maestra. Imprigionata dagli jugoslavi e liberata dai tedeschi, indagò sulle uccisioni effettuate dai titini e sull’indifferenza delle autorità della R.S.I. e tedesche, che riempì di denunce considerandole traditrici. Smosse poi i suoi contatti, infiltrandosi addirittura sotto copertura tra i partigiani, per cercare un fronte comune di tutte le forze (anche partigiane e alleate) in chiave anticomunista. Per questi suoi progetti si ritrovò braccata dall’OZNA e dai tedeschi. A cuore aveva, come lei stessa disse, più di tutto la sua patria e quindi Pola e Trieste. E forse cercò di vendicare loro con quel suo gesto sciagurato.

La Varese storica - VareseNews - Foto maria pasquinelli
Esuli di Pola in partenza

L’attentato

La mattina del 10 febbraio 1947 a Parigi si firmavano gli accordi che avrebbero visto la creazione del Territorio Libero di Trieste e la cessione di Pola, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Il generale De Winton, capo della guarnigione britannica di stanza a Pola, si dirigeva in macchina verso il luogo dove avrebbe dovuto passare in rassegna le proprie truppe prossime alla partenza. Vicino all’arrivo, De Winton si vede sbucare dalla folla una donna dal volto scolpito e dallo sguardo deciso malgrado il corpicino esile e il tailleur grigio coperto da un mantello rosso. Maria Pasquinelli spara. Lui non sopravviverà. Maria getta la pistola e mette le mani in alto, facendosi arrestare dalla polizia britannica. In tasca aveva un biglietto che diceva

Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio.

maria pasquinelli
Maria Pasquinelli durante il processo

Il processo a Maria Pasquinelli

A Trieste e a Pola si esulta: sui muri si trovano abbondanti scritte che dicono “dal letame è nato un fiore” e il corpo d’occupazione istituisce una protezione speciale per il PM che si occupava del caso Pasquinelli nel timore di ritorsioni. Al processo Maria rimane, con stupore dei cronisti, impassibile anche di fronte alla condanna a morte. Si rifiuterà di chiedere la grazia agli “oppressori della sua terra” e la pena verrà commutata in ergastolo. Nel 1964 chiese la grazia presidenziale, per motivi non specificati. Ad ogni modo la ottenne e non si occupò più di politica per il resto della sua (lunga) vita. Visse con la sorella a Bergamo fino al giorno della sua morte, il 3 luglio 2013.

Maria Pasquinelli: onore e vendetta

Nella storia della Pasquinelli due tratti sono evidenti: quelli dell’onore e quelli della vendetta. L’onore di Maria, i suoi saldi principi che in primis non le fecero chiedere la grazia, che la portarono a non opporsi all’arresto, l’onore degli esuli di Pola che rimasero così fortemente attaccati alla loro terra. E la vendetta, sentimento che contrasta con l’onore, ma che è presente nel gesto di Maria, nei festeggiamenti dei triestini e nelle violenze titine che volevano lavare col sangue il sangue delle persecuzioni fasciste. Questi due aspetti non ne fanno né una storia positiva né una storia negativa, ma solo una storia profondamente umana. Ne fanno una pagina di storia dimenticata che narra del sangue e delle lacrime di un popolo e delle decisioni di chi dall’alto manovra popolazioni che non conosce ricommettendo errori tragicamente già commessi e causando conseguenze tragicamente già viste, coma la rivolta del 1953 per l’italianità di Trieste.

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Con Uomini in Rivolta raccontiamo i gesti che hanno cambiato il corso della storia. Perché dietro quei gesti ci sono quasi sempre delle ragioni, dei fatti e delle vite. Questo vogliamo raccontare: personaggi, contraddizioni, fatti e vite di epoche più o meno lontane partendo da un punto di vista insolito.

 


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