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La realtà virtuale: rischio o beneficio?

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11 minuti di lettura

Nel periodo che stiamo attraversando, non risulta semplice convincersi del fatto che le tecnologie digitali debbano essere un di più e non il tutto. Tra chi nel dibattito filosofico-culturale se ne fa detrattore e chi, invece, ne fa la panacea di tutti i mali, solo in pochi sembrano comprendere il digitale per quello che è davvero: un naturale prodotto dell’attività umana per il progresso e il miglioramento della realtà, di cui si può fare un buono o un cattivo uso.

Tuttavia, che il digitale stia trasformando la struttura del nostro mondo (digitalizzazione del mondo) e le nostre pratiche antropologiche, sociali e psicologiche (antropizzazione del web) è evidente ed è esperito da quasi tutte le donne e gli uomini del pianeta. Fin nella più banale delle operazioni quotidiane, il digitale è, attualmente, il carburante della civiltà contemporanea. Per capire il fenomeno è quindi il caso di sgombrare il campo e abbandonare certe visioni retrograde sull’argomento e di rendersi conto dell’influenza positiva che esso esercita sul vivere comune.

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Insieme ai big data e alla Internet of things, la Realtà Virtuale, in questo scenario, gioca un ruolo di primo piano.
Ridurre il fenomeno della realtà virtuale alle sole dimensioni videoludica del “gaming”, cinematografica, teatrale, musicale o artistica in genere, si rivela essere sempre più un atteggiamento osservativo e analitico inappropriato e limitato.

Il periodo del lockdown, in proposito, ha reso evidente la funzione psicoterapeutica della VR, ad esempio nell’uso documentato che ne è stato fatto negli ospizi per anziani o tramite l’utilizzo terapeutico del “gaming”. Che l’impiego della VR sia efficace per il trattamento dei disturbi psichici è provato al punto che si è sviluppata, negli studi clinici, la Virtual Reality Exposure Therapy (VRET).
È inoltre diffuso l’uso professionale che della VR si può fare all’interno dei webinar aziendali o universitari. L’azienda spagnola Virtway ha creato una piattaforma immersiva in cui è possibile connettersi ai webinar mediante un personale avatar, per rendere la dimensione dell’incontro più coinvolgente rispetto alla classica “stanza” Zoom o Meet. 

Oltre apocalittici e integrati

Le categorie echiane di apocalittici e integrati, che si prestano straordinariamente bene a descrivere le reazioni alla pervasività onnicomprensiva del digitale, sia nell’opinione pubblica che nei dibattiti culturali, andrebbero superate. Il digitale, con molta probabilità, diventerà l’ossatura e le articolazioni del nuovo mondo. Già lo sta diventando, ridefinendo pressoché tutto quanto.

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Riassumendo, in breve, l’evoluzione del digitale dagli anni ‘10 ai ‘20 del nuovo millennio, un articolo del Financial Times esordisce: «gli anni ‘10 sono stati segnati dall’introduzione degli schermi in ogni parte delle nostre vite, nei ‘20 assisteremo alla riproduzione di ogni parte delle nostre vite stesse negli schermi».
Ma certe esperienze digitali che sono possibili oggi ancora suscitano molta diffidenza, e a tratti repulsione, almeno nelle società in cui il senso critico è forte. Di contro, un giornale noto e prestigioso come il Guardian pubblica articoli in cui si consigliano app per vivere esperienze in VR durante il lockdown.
Se certe esperienze essenziali del nostro vivere comune risultano difficili da immaginare nella loro trasposizione digitale, lo scorso febbraio, l’episodio, mostrato nel documentario coreano I met you, di una madre che può rincontrare nella VR la figlia morta ha suscitato emozioni, speranze e riflessioni in tutto il mondo. 

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L’incontro tra madre e figlia. Fonte: Repubblica.

Le reazioni politiche e sociali al fenomeno pandemico forniscono un’opportunità di crescita alla VR, che viene considerata una soluzione alla noia e alla frustrazione del non poter vivere esperienze durante il lockdown. Di conseguenza, viene incrementato l’utilizzo di headset per esperienze virtuali. È il caso delle esperienze on demand delle Realtà Virtuali che vengono utilizzate, come detto, a vari livelli: dalle aziende, per ovviare al problema del distanziamento fisico, per lo svago casalingo, o per un utilizzo psicoterapeutico.

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Black Mirror, Playtest

Investimenti milionari sulla VR da parte di aziende erano già in atto prima della pandemia (per la precisione, almeno dal 2003 con Second Life). L’esistenza delle realtà virtuali è, da diverso tempo, oggetto sia di approfondimento accademico, sia di rappresentazioni cinematografiche. Tra gli esempi più recenti si pensi a Black Mirror, Ready Player One, o alla recentissima serie coreana di Netflix My Holo Love. È molto affascinante, e fondamentale, vedere che ciò che è oggetto di lavoro e di riflessione scientifica e accademica, è al contempo anche al centro di rappresentazioni artistiche fruibili dal grande pubblico, la cui comprensione è accessibile a tutti. Ciò è di per sé segno evidente della natura pervasiva e interdisciplinare della VR in termini applicativi.

Ad esempio, la VR rappresenta la nuova frontiera dell’istruzione e della formazione professionale, sia in termini di un aggiornamento didattico interattivo “che coinvolge tutti i sensi”, sia nel momento in cui fornisce, nelle nostre società complesse, una stratificata gamma di rappresentazioni di nuove realtà che produce la diffusione di input all’approfondimento di aspetti essenziali del nostro tempo. Una diffusione data proprio dalla corrispondenza e dalla “collaborazione” tra prodotti di intrattenimento e studi di settore, che hanno per oggetto lo sviluppo tecnologico e i mutamenti digitali nelle loro ripercussioni rispetto al modo di percepire e concepire la realtà, e, quindi, la complessità del reale nel suo divenire trasformativo. 

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Molti dei prodotti artistici attuali, soprattutto di tipo audiovisivo e videoludico, non sono meri prodotti di intrattenimento o di svago, ma elementi culturali che mostrano, e spesso riflettono, sui cambiamenti della realtà. Un esempio di prodotto audiovisivo recente che mostra uno scenario possibile della nuova realtà a venire a proposito di VR è la serie Amazon Prime Upload. Essa è essenzialmente una mirabile rappresentazione cinematografica della mixed reality, la realtà ibrida che connette, e consente quindi l’interazione, tra virtual beings ed esseri umani fisici. 

Che tipo di rischi suscita la VR?

Come affermò in una intervista al Corriere il creativo digitale Ken Swain

Nella realtà virtuale le persone continuano a pensare di vedere soltanto “immagini”. Con i progressi che possono essere raggiunti, si arriverà a un punto in cui il mondo simulato e il mondo reale in termini visivi saranno praticamente indistinguibili. È allora che il discorso diventerà interessante, ma anche potenzialmente pericoloso.

A distanza di un anno, la VR ha raggiunto questo stato di indistinguibilità visiva, come ci mostravano qualche anno fa alcuni episodi di Black Mirror. Tuttavia, il fatto che siamo enti mentali e intelligenti – e che la vista è per noi il primo senso, come diceva già Aristotele – non è per ora sufficiente a farci accettare l’esperienza virtuale come identica all’esperienza offline, nonostante la funzione della VR di surrogato palliativo della realtà ordinaria risulti straordinariamente efficace come esperienza utente.

realtà virtuale
Black Mirror, Sticking Vipers

Il fatto che siamo le uniche entità analogiche intelligenti, cioè in grado di vivere esperienze mentali, non significa, almeno per ora, che tutto il nostro vivere debba trasformarsi in esperienze vissute nel regno della mente. Il corpo continua a volere la sua parte. Non è sufficiente per il corpo provare a livello endocrino gli input emotivi che gli fornisce la mente, e da essa interamente prodotti, attraverso il sistema nervoso. Anche se questi stati emozionali ed esperienziali vengono vissuti in una realtà diversa da quella comune e quotidiana, manca ancora il momento del venire meno di una elisione tra realtà effettiva e realtà virtuale. Ciò, da una parte, impedisce la pienezza dell’esperienza umana nella VR, e, dall’altra, frena la trasformazione dell’essere umano in virtual being, mantenendo un “doppio” che, per ora, abita sia l’ambiente analogico fatto di oggetti fisici e di contatti corporali, sia l’ambiente digitale fatto di codici e di esperienze artificiali simulate.
Gli ologrammi non riescono a sostituire una carezza o la sensazione di toccare o gustare qualcosa e tutte le sensazioni che vengono prodotte dalla sensibilità. Il rischio più grande, rispetto al digitale, per il futuro, è che il corpo non avanzi più pretese che la mente non sia già in grado da sola di soddisfare.

È per questo che analogico e digitale devono coesistere: per evitare l’estinzione della corporeità. Per evitare, cioè, che il corpo diventi unicamente il sostrato biologico che ci mantiene vivi e che tutte le qualità corporali vengano inglobate e perfezionate nella vita della mente, cioè in esperienze mentali in cui viene simulata la sensibilità e con essa la nostra vita empirica.

Non molti anni fa c’era una distinzione chiara e netta tra reale e virtuale. Il virtuale era pericoloso per il fatto che irretiva e isolava producendo finzioni e illusioni; la realtà era, invece, la verità e il luogo proprio della vita. Adesso avviene che, sebbene le differenze tra reale e virtuale siano sempre più raffinate e strutturate, il virtuale viene riconosciuto come qualcosa che c’è, a cui si può accedere e in cui si può operare realmente. In questo modo si va verso una integrazione dei due, che avviene attraverso l’accettazione del virtuale come parte della realtà e non come suo opposto. Ai nostri giorni, la realtà virtuale viene considerata teoricamente per quello che è effettivamente: un nuovo livello dell’esperienza umana. La VR unisce la creazione informatica alla condizione di percezione potenziata del tipo mistico della visione. Per questo, oggi, come riferisce Jaron Lanier (padre della VR) nel suo libro L’alba del nuovo tutto. Il futuro della realtà virtuale (2017) :

La realtà virtuale rappresenta una frontiera scientifica, filosofica e tecnologica della nostra epoca. Costituisce un mezzo per realizzare la totale illusione di trovarsi in un altro luogo, forse in un ambiente fantastico, alieno, forse con un corpo di gran lunga diverso dall’umano. Eppure si tratta anche del miglior apparato possibile per capire cosa sia davvero un essere umano in termini di conoscenza e percezione.

La distinzione tra reale e virtuale ha cominciato a restringersi con l’invenzione della “spada di Damocle”, il primo visore VR, nel 1968. Poi, quando nel 1989 Jaron Lanier coniò il termine “Realtà Virtuale” e la definì “comunicazione post-simbolica” e una “forma di espressione in tempo reale più rapida della parola”, la VR iniziò a prendere maggiore consistenza. Ma ci sono voluti trent’anni per giungere al livello di conoscenza necessaria per la creazione di tecnologie digitali in grado di attuare le esperienze di realtà virtuale oggi in uso. Lo stesso Lanier affermava nel 2019:

Sebbene la maggior parte delle persone abbia cominciato a lavorare nell’ambito della VR pensando di applicarla al gaming, non è per questo mondo che è stata originariamente concepita.

Una scena da Upload

La cosa più assurda con cui dobbiamo fare i conti è la scoperta che l’essere umano può provare esperienze sensoriali complete a prescindere dal contatto e dall’interazione con gli oggetti concreti, cioè a prescindere dal rapporto fisico e biochimico con la materia. Ma è davvero così?

Un’esperienza mentale

L’integrazione non deve essere sostituzione o assimilazione dell’analogico al digitale. La dimensione corporea deve sopravvivere perché è quella che ci rende esseri umani, ovvero entità analogiche intelligenti. Se scompare la dimensione corporea e la si vive solo come input cerebrali prodotti da esperienze digitali, scompare una grande differenza tra noi e le macchine: il pensiero intuitivo. Se si ragiona in termini di informazione, di input elettrici, allora si può ammettere che essere immersi in una situazione virtuale realistica equivalga a provare sensazioni. Ma non è forse come qualcosa di simile a ciò che si produce nel sogno? Alla base della realtà virtuale c’è proprio il tentativo di produrre registrazioni olografiche che riproducono quanto più dettagliatamente e accuratamente possibile la realtà empirica; ma soprattutto c’è l’ambizione di far vivere esperienze inedite alle persone. In questo senso Bernard Stiegler affermava che le persone cercano nella realtà virtuale ciò che non trovano nella realtà ordinaria.

Lo scopo della VR non è solo quello di suscitare un’esperienza quanto più possibile “realistica” rispetto a quella che un corpo e una mente vivono trovandosi in una qualsiasi situazione di vita ordinaria in un luogo reale, ma di fornire elementi di meraviglia e di magia, consentendo alle persone di vivere esperienze extra-ordinarie. L’idea che vi sta dietro sembra essere proprio quella che se si riproducono, in modo accurato e completo, gli input sensoriali che giungono al soggetto dalla realtà esterna, l’esperienza virtuale può far vivere all’utente esperienze straordinarie con la percezione realistica e concreta analoga a quella delle esperienze quotidiane della realtà ordinaria. A quel punto trovare le differenze diventerebbe assai complicato. Abbiamo visto rappresentata una situazione del genere nell’episodio Playtest di Black Mirror

La vista è il senso più importante, perché è quello con cui conosciamo meglio. Ma non per questo la vista è il mezzo per provare tutte le sensazioni. Il virtuale ci ingiunge a vivere esperienze mentali piacevoli sfruttando la vista, ma al contempo a surrogare gli altri sensi di cui si compone il corpo. Se la vista è connessa al pensiero, ecco che nel virtuale diventiamo enti esclusivamente mentali. Proviamo emozioni, piacere, ma non possiamo provare certe sensazioni e certi piaceri che ci possono procurare solo la sensibilità e il contatto corporeo con le cose, e quindi solo le esperienze offline e analogiche.

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Il pensiero analitico viene incrementato dal digitale, ma quello intuitivo? Nella VR avviene tutto quanto a livello mentale. L’esperienza stessa diventa qualcosa di meramente cerebrale fatta di impulsi elettrici e di energia chimica che l’organismo produce senza entrare in contatto con oggetti. Il rapporto relazionale con gli enti intramondani della nostra esperienza ordinaria diventa rapporto relazionale con registrazioni olografiche, con bit inconsistenti, con oggetti immateriali che vediamo e crediamo realisticamente di manipolare, ma che di fatto non hanno materia, ma solo una forma e un’aura realistica.

La VR è una dimensione onirica nello stato di veglia, un sogno consapevole in cui si è coscienti e si agisce in modo intenzionale, all’interno di una realtà noetica simile a un sogno perfezionato da elementi sensoriali vividi, ma illusori e ingannevoli. Il rischio è che tutto ciò ci emozioni, che le esperienze che viviamo nella VR ci lascino un segno, un bel ricordo, una fissazione, un desiderio di riviverle, come si vede rappresentato nell’episodio di Black Mirror Striking Vipers

Uno scatto dalla serie cult Black Mirror

A un passo dalla realtà ordinaria

La realtà virtuale cosiddetta “immersiva” riesce ad assorbire completamente il soggetto umano: la persona opera nella situazione virtuale creata al computer come (e addirittura meglio di come) opera nella stessa situazione empirica. In questo modo si compie il passaggio da human being a virtual being. Ha senso, in questo caso, parlare di rapporto copia/modello? In che misura la situazione creata al computer è una riproduzione di quella stessa situazione reale, se l’esperienza soggettiva è pressoché analoga? È sempre più complesso, via via che lo sviluppo tecnologico si aggiorna e si perfeziona, stabilire con esattezza le differenze tra la VR e la realtà ordinaria. La distinzione tra realtà e finzione, come tutte le distinzioni, è operata dalla mente: cosa succede quando la mente non è più in grado di fare questa distinzione? Certo non che la finzione diventa la realtà, ma semplicemente che la realtà simulata non viene più colta dalla mente come illusoria, come uno spazio ingannevole composto di entità fittizie. Questo perché lo scopo della Realtà Virtuale non è la riproduzione della realtà ordinaria, la simulazione, ma l’approssimazione crescente ad essa, che dovrebbe idealmente sfociare nell’identificazione, o meglio, nella sostituzione. Addirittura si può pensare che la VR avanzata tra non molto tempo sarà in grado di produrre non una realtà simile alla ordinaria, ma migliore, epurata da certi difetti intrinseci, nell’incontro con le capacità percettive e cognitive dei soggetti umani. Dopo tutto, come diceva Lacan

La Realtà è ciò che non funziona, ciò che richiede un grande sforzo per essere equilibrata e in armonia con il soggetto umano, mentre la finzione, al contrario, è ciò che funziona, perché è la mente umana stessa che la progetta secondo i proprio schemi percettivi e i propri desideri. 

Ma allora, la VR è più rischiosa o più benefica? Sicuramente, quello che si può dire è che viene già (e verrà) utilizzata in modo sempre più diramato per ragioni variegate e in ambiti molto diversi tra loro. Quindi, già solo per questo, merita attenzione ed esige di essere compresa.

In apertura: Playtest, Black Mirror.

 


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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.