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Il corpo della donna migrante

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5 minuti di lettura

Il corpo costruito, secondo la sociologa Colette Guillaumin, è il luogo in cui si registrano le pratiche politiche e le relazioni di potere del quotidiano. Corpo come specchio della società, come rappresentazione stessa del proprio io e, di conseguenza, immagine contrapposta all’altrui.

Vi è un corpo che, secolarmente, ha sentito come sua una predestinazione insignita dal genere di appartenenza, dalla razza di provenienza, addirittura dall’estrazione sociale casualmente accaduta. Lo stesso corpo che con maggior orgoglio solcava i mari e conquistava terre era un corpo ancestralmente bianco, maschio, eterosessuale, preferibilmente portatore di conoscenza e ricchezza.

Era un corpo che aveva in sé il fenotipo del soggetto egemonico mondiale e che, in quanto tale, riconosceva gli altri corpi non solo opposti al suo, ma come inferiori.

Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà,
conoscere una sola logica
è prigione.

Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere
è prigione.

Prigione, Ndjock Ngana

Il corpo femminile

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GONE WITH THE WIND, Butterfly McQueen, 1939

Certo il corpo maschile ha in sé la virtù, dal latino virtus, degna solo del vir, dell’uomo in quanto appartenente al sesso maschile. Una virtù che gli ha concesso di rimarcare appartenenze e diritti, sopra i doveri altrui. Recente è la polemica sulla statua di Indro Montanelli, instaurata nel 2006 a Milano. La questione nasce dalle rivolte scoppiate negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd per mano di un poliziotto – le richieste di rivendicazione degli afroamericani non hanno mosso solo gli Stati Uniti. Così, capillarmente, in giro per il mondo manifestazioni si sono spinte ben oltre, spostando la questione su un piano diacronico: molte statue di figure che richiamavano agli anni dello schiavismo e del colonialismo sono state imbrattate o addirittura rimosse. A Milano, la statua di Indro Montanelli è stata imbrattata per due volte consecutive.

Ne La Stanza di Montanelli sul Corriere, 12 febbraio 2000, si legge la risposta del celebre giornalista alla domanda di una sua lettrice, in merito alla questione della bambina sposata dallo stesso durante la campagna d’Africa. Risponde, Montanelli:

La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perchè era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressochè insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.

Prosegue raccontando che, ogni venti giorni, la bambina-sposa comprata per 350 lire lo raggiungeva, ovunque si trovasse, portando sulla testa una cesta di biancheria pulita e compiva il suo servizio. Fino alla morte Indro Montanelli ha difeso la sua posizione, in quanto quell’acquisto e quel comportamento, era pratica consueta nel luogo in cui avveniva. Certo comprare un corpo in Italia, o in qualsiasi altro paese Occidentale, sarebbe stato riprovevole – ma in Etiopia, era concesso. Corpo donna migrante

La raffigurazione del corpo femminile della donna migrante come le donne africane e mediorientali, ha subito modificazioni dai tempi di Montanelli. Mutamenti apparenti che, nonostante le rivendicazioni femministe e i cambiamenti degli assetti sociali e politici dei paesi definiti “arretrati” dai paesi colonialisti, permangono nella cultura, nel modo di essere, di vivere e confrontarsi con l’altro.

Se il corpo è cornice del sociale, del politico e dell’economico, l’immagine femminile delle donne migranti rimane impregnato, nell’immaginario collettivo, di una serie di pregiudizi e paradossi legati a un modo di abitare il collettivo diverso da quello occidentale.

Il corpo della donna migrante nella letteratura

In Nuovo immaginario italiano, Maria Cristina Mauceri e Maria Grazia Negro confrontano scrittori italiani e scrittori stranieri nel panorama italiano. Se il corpo è costruzione del sociale, la letteratura ne è voce narrante.

Nel panorama italiano, il corpo della donna migrante viene racchiuso dentro una serie di dicotomie, tra cui quella di donna sessuale: prostituta, promiscua, oggetto del desiderio sessuale. Un corpo che è prettamente carne, che riveste in sé l’essere altrui su un diverso piano gerarchico che la contrappone all’immagine femminea nostrana.

In La straniera (1999) dell’iracheno Younis Tawfik, la protagonista del romanzo è una prostituta. L’autore mette a confronto due esperienze migratorie, rendendo chiaro l’esito differente: l’uomo si inserirà nella società come architetto; la donna, abbandonata dal marito, sarà obbligata a prostituirsi per sopravvivere. Tawfik approfondisce la psicologia della donna, mostrando come la via della prostituzione sia la sua unica possibilità e, al contempo, lasciandole un barlume di libertà nella scelta di agire sotto questa forma di ribellione e, in un certo senso, di emancipazione. Racconta inoltre che la donna ha un difficile rapporto con la sessualità a causa di una violenza subita in giovane età: «traumatizzata da questa esperienza, usa la sessualità manipolando il desiderio maschile, per ribellarsi alla condizione femminile del suo paese e affermare la propria indipendenza».

Salah Methnani, in collaborazione con Mario Fortunato, in Immigrato, affronta la questione della prostituzione maschile, e dell’attrazione degli uomini italiani nei confronti degli uomini migranti.

Mi chiedo perché gli omosessuali occidentali considerino noi nordafricani, sempre e comunque, disposti a tutto; non importa quello che provi, basta pagare. È vero: molti, troppi ragazzi tunisini o marocchini pensano, venendo in Italia, che basta trovarsi un frocio per risolvere i propri problemi. È vero; ma questo non basta a giustificare un accidente.

Per l’italiano, in Immigrato, la necessità di sottomettere un corpo inferiore, disperato, e disposto a tutto pur di guadagnare qualcosa, è fonte di un profondo piacere sessuale.

La prima testimonianza di prostituzione transessuale viene da Princesa (1994) di Fernanda Farias de Albuquerque. La donna, nel romanzo autobiografico, descrive in questo modo i suoi clienti italiani:

Furono in quindici, quasi tutti vollero toccarlo. Volevano vederlo, sentirlo dritto nelle loro mani il mio pisello. Solo così godevano, eppur, occorre dirlo, molti di loro sopra di me erano uomini che facevano […]. Ma al quindicesimo pensai che tutta Milano fosse viziata […]. Era maschio e femmina che mi volevano. Io non ho mai capito se i milanesi comprassero una donna con il pene o un uomo con i seni.

La corporeità di Princesa è essenziale, e in quanto transessuale, racchiude in sé i paradossi e le alterità che, oggi come negli anni Novanta, in Italia, mostravano l’incoerenza del pensiero tollerante occidentale. Il suo è un corpo straniero, binario, lontano da quel corpo che solcava i mari ed era conforme allo stato delle cose: bianco, eteronormativo, maschio. E ciò nonostante, era desiderabile in quanto tale.

Ripensare il corpo

«Avere un solo corpo è una prigione», scrive Ndjock Ngana. Un corpo che, per cause di forze maggiori, è gabbia di uno storico pregiudizio. Legato strettamente alla costruzione della razza, del genere, della classe, della sessualità e di differenze culturali e religiose. Un corpo che, finché viene stigmatizzato come etichetta dell’essere, risulta profondamente segnato dal pensiero altrui.

Gli esempi citati, primo fra tutti la descrizione di Montanelli della sua sposa-bambina, è emblematica della ricezione occidentale del corpo straniero. Identificato come portatore di una cultura inferiore che giustifica l’atteggiamento bianco, eteronormativo, maschile nei confronti di tutte le figure che hanno in sé una corporeità subalterna.

Necessaria è una critica decostruttiva sulla questione del corpo: liberare cioè dall’oppressione colonialista quei corpi che hanno ragione d’essere fuori dalla loro costruzione sociale. Che siano cioè solo corpi, ed in quanto tali, abbiano la libertà di manifestare il proprio io. Finché la codificazione di femminilità, mascolinità, bellezza e sessualità sarà legata prettamente al pensiero sociale occidentale – in sé costrutto sociale distante dal contemporaneo – il corpo della donna migrante continuerà ad essere subissato di un pregiudizio che la rende docile animale sessuale, ove solo il corpo femminile bianco è «autorizzato ed esclusivamente assegnato alla sessualità e riproduzione legittima» (Dorlin, 2005).

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Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrivo, ma più che altro penso.