Quella che vi presentiamo oggi è un’opera che non potete vedere dal vivo. Nel 1849, Gustave Courbet dipinse la grande tela Gli spaccapietre, rappresentazione realistica della fatica di un umile mestiere e denuncia sociale delle condizioni di vita delle classi più povere. Il dipinto, ubicato al museo di Dresda, venne distrutto durante il bombardamento della città tedesca nel 1945 e a noi rimane soltanto una documentazione fotografica.
«Gli spaccapietre»: analisi dell’opera
Se L’atelier del pittore può essere considerata l’opera più simbolica di Courbet, decisamente complessa e pregna di caratteri autobiografici, Gli Spaccapietre diventa narrazione cruda e impietosa del lavoro nelle cave di pietra. I protagonisti sono due operai. Quello più anziano, ritratto di profilo e inginocchiato, spacca le pietre con un martello. Dietro di lui, raffigurato di schiena, un garzone solleva un cesto pieno di sassi.
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Entrambi indossano abiti laceri, rattoppati. Ma la miseria, evidente in questi particolari, si propaga al resto della scena con un’atmosfera resa desolante, opprimente sotto quelle montagne aspre e brulle, senza una linea dell’orizzonte. C’è solo uno spiraglio di cielo in alto a destra. Ma i due uomini, di cui non conosciamo i volti né l’espressività, sembrano non vederlo, così piegati dallo sforzo, condannati alla fatica e agli stenti.
A proposito di Gustave Courbet
Courbet fu senza dubbio un innovatore. La grande novità della sua pittura – che ispirerà per molti aspetti tutta l’arte futura, non solo francese, dagli impressionisti in poi – è nel realismo, nella raffigurazione fedele ed obiettiva della realtà, semplificata rispetto alla corrente del Romanticismo. Courbet con la sua opera trasferì all’uomo moderno suo contemporaneo «la forza e il carattere riservati fino allora agli dei e agli eroi» (Jules-Antoine Castagnary, critico d’arte).
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Vi lasciamo le parole di Courbet stesso, scritte nell’opuscolo della sua mostra personale allestita in un improvvisato Padiglione del Realismo in segno di protesta per l’ennesimo rifiuto della giuria accademica del Salon durante l’Esposizione Universale del 1855:
«L’attributo di realista mi è stato imposto come agli uomini del 1830 s’impose quello di romantici […]. Ho studiato, al di fuori di qualsiasi sistema e senza prevenzioni, l’arte degli antichi e quella dei moderni. Non ho voluto imitare gli uni né copiare gli altri […]. Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere; essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo».
Fonte Musée d’Orsay
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