Fra le tante scuole filosofiche che nacquero sull’onda lunga del platonismo nella Grecia del IV secolo, ci fu anche il cinismo. La parola cinismo deriva dal greco kyon, che significa cane. I cinici, ritenendo ogni bene superfluo eccetto la virtù, vivevano come dei cani: per strada, randagi, vestiti di pelli, nutrendosi di avanzi. Si dice che il fondatore del cinismo fu Antistene, che sosteneva si dovessero trascurare le discipline teoriche (musica, astronomia, matematica, ecc.) per dedicarsi alla sola cosa importante: vivere bene.
Nonostante Antistene, la figura più rappresentativa del cinismo è Diogene di Sinope. Diogene, come si sa, viveva in una botte. Si racconta che, una volta, mentre usava una scodella per bere, vide, lungo la strada, un cane che beveva direttamente dalla pozzanghera. Gettò la scodella per strada e si mise a bere, anch’egli, dalla pozzanghera.
Per i cinici, tutto ciò che intralcia il cammino che conduce alla virtù va tralasciato. Il depauperamento di sé dev’essere portato all’estremo, in nome della libertà. Stando alle loro parole, libero, in effetti, è chi nulla possiede. Nel momento in cui mi preoccupo perché ho perso il mio orologio, in qualche modo ne divengo schiavo. Ecco perché la vita del cane randagio assurga a modello: il cane, di suo, non ha nulla, se non la sua vita.
I cinici, così Diogene, non solo cercavano la povertà, ma amavano la povertà. La condizione di ricerca continua della povertà poteva anche tradursi in un’accettazione della schiavitù. Si dice che i cinici si lasciassero vendere al mercato degli schiavi, proprio per dimostrare la propria fermezza d’animo.
La ricerca della virtù doveva tradursi in un’azione di militanza perpetua. Bisognava ricordato all’uomo, agli uomini, che uomo vero non lo è nessuno, proprio perché nessuno può dirsi libero. Così il cinico sbraitava questa verità in faccia a chi passava per la piazza. Non solo. Si dice che Diogene, ricoperto di stracci, si aggirasse per il mercato di Sinope con una lanterna in mano: «cerco l’uomo», diceva.
Il cinico rappresenta, come scrisse Michel Foucault, lo «specchio rotto dell’umanità». Nell’estremità, nell’assurdità della sua esistenza, egli suscita disgusto e insieme ammirazione, poiché si mostra il riflesso dell’esistenza che stiamo rinnegando o che non vogliamo vedere. Dopotutto, è evidente che il suo monito sia rivolto a noi.
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