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In quarantena con filosofia: sul riconoscimento | òbolo /8

Riconoscersi. Il sé e l'altro. Il problema irrisolto della coscienza.

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Secondo il mito, Narciso sarebbe stato un cacciatore dalla bellezza sovraumana. Non solo bello, ma anche superbo, tanto che venne punito dagli dei per aver respinto tutti i suoi pretendenti. La punizione la conosciamo tutti: Narciso, vedendo la sua immagine riflessa in un laghetto, s’innamorò di se stesso. Si tuffò in acqua nel tentativo di abbracciarsi, annegando. A ben vedere, gli dei riservarono a Narciso una punizione ingegnosa: lo condannarono a non riconoscersi. È perché Narciso non vede che al di là della sponda del laghetto c’è la sua immagine riflessa, ossia è perché non si riconosce, che muore affogato.

In tutt’altro contesto, la stessa sorte toccherà a Vitangelo Moscarda, protagonista pirandelliano di Uno, nessuno e centomila. Moscarda è un uomo semplice, conduce una vita frugale. Una mattina si sveglia e guardandosi allo specchio, nota, consigliato dalla moglie, un piccolo difetto di forma del suo naso. È un po’ storto, gli dice lei. Lui aguzza la vista, coglie la lieve pendenza del naso. Per Moscarda si tratta dell’inizio di una crisi d’identità che sfocerà, non potrà che sfociare, nella follia. Il mancato riconoscimento, questa volta, non è inflitto a mo’ di punizione, ma la conseguenza di un rapporto di asimmetria con la propria identità. La pretesa di Moscarda di cogliersi tutto d’un colpo e come per intero nella sua identità, è destinata a fallire, perché impossibile.

La vicenda, solo che, per così dire, presa al contrario, è molto simile a quella raccontata da Emmanuel Carrère nell’ultimo romanzo tradotto in italiano, I baffi. Il protagonista, per fare una sorpresa alla moglie, decide di tagliarsi i baffi. Esce fuori che lui, in realtà, non ha mai avuto baffi, e tutti, moglie, famigliari, amici, paiono essere sicuri che è lui, il protagonista, ad aver preso un abbaglio, ad essersi sbagliato. Il mancato riconoscimento si risolve anche in questo terzo caso nella follia, mostrandone la doppia faccia: sono io che sbaglio, che non mi riconosco, o gli altri che complottano ai miei danni?

Le conclusioni che se ne possono trarre sono due. Da un lato, possiamo sorvolare con leggerezza su queste storie, trattandole come casi limite, favole dall’inevitabile risvolto morale e\o sociale. Dall’altro, invece, possiamo assumerci il peso della verità che dicono, ossia che, nel bene e nel male, siamo sempre, in ogni momento, estranei a noi stessi, e rassegnarci all’impossibile tentativo di riconquistare la nostra identità – ossia, di riconoscerci.


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.