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Il pensiero di Wittgenstein nel «Tractatus»

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«Ha studiato lettere classiche e filosofia e chissà cos’altro con un professore che era un genio pazzoide e si chiamava Wittgenstein ed era convinto che tutto sia parole». Così scrive David Foster Wallace, uno dei più grandi scrittori americani di fine Novecento, nel suo libro La Scopa del Sistema. Se uno guarda alla vita di Ludwig Wittgenstein, però, scopre che la sua fu tutt’altro che una vita stravagante o pazzoide, completamente diversa da quella di filosofi novecenteschi come Jean-Paul Sartre o come Michel Foucault o Gilles Deleuze, che invece ebbero un certo ruolo, ad esempio, nella contestazione del ’68 o, soprattutto Sartre, di particolare importanza nell’opinione pubblica. Nasce in una famiglia facoltosa, austriaca di origini ebraiche: una famiglia così influente che Maurice Ravel, uno dei più grandi compositori dell’epoca, compose il Concerto per mano sinistra per il fratello di Wittgenstein, a cui appunto la mano destra era stata amputata a causa delle ferite di guerra.

All’università studia ingegneria e nel 1911 incontra il filosofo Gottlob Frege, che gli consiglia di andare a studiare in Inghilterra da Bertrand Russell, impegnato in quegli anni con i Principia Mathematica. Stufo della vita di Cambridge, Wittgenstein nel 1913 si trasferisce in Norvegia dove può dedicarsi ai suoi studi di logica. Torna nella sua terra natale allo scoppio della guerra, ma viene catturato e viene rinchiuso a Cassino: a lui non potrebbe andare meglio. Così, infatti, ha il tempo di scrivere il Tractatus Logico-Philosophicus. Una volta terminato, viene pubblicato in versione originale nel 1921 e nel 1922 in versione inglese, grazie all’interessamento di Russell. La sua vita procede rifiutando l’eredità paterna, poiché considera il denaro come corruttore, insegnando nelle scuole medie dell’Austria e poi vivendo in Irlanda dove viene preso per una sorta di leggenda dai pescatori locali

Tractatus è formato da proposizioni, sette fondamentali, seguite, esclusa la settima, da commento e esplicazione. Avrà un’importanza decisiva sullo sviluppo sia del neopositivismo del Circolo di Vienna, sia della filosofia analitica novecentesca.

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Il tema principale dell’indagine di Wittgenstein è il rapporto tra linguaggio, mondo reale e pensiero, partendo dalla constatazione che il mondo non è l’insieme delle cose, bensì dei fatti. La tesi da lui esposta è quella dell’isomorfismo, che, etimologicamente parlando, significa “stessa forma”. Per capirlo, basta pensare al modo in cui Wittgenstein è arrivato a ciò: un quotidiano diede la notizia di un processo in tribunale dove, per rappresentare un incidente automobilistico, vennero utilizzati dei modellini di automobile. I modellini non erano le automobili, bensì le rappresentavano, avendo in comune la struttura logica e causale. Il pensiero e il linguaggio non sono la realtà, ma hanno delle strutture in comune con questa. Il linguaggio non può che essere la proposizione: gli oggetti, dice Wittgenstein, possono solo essere nominati, ma non ci dicono nulla della realtà. Si legge nel Tractatus «la possibilità della sua ricorrenza in stati di cose è la forma dell’oggetto». Ovviamente queste proposizioni semplici, che non possiedono connettivi, non bastano: serve connetterle «come le maglie d’una catena». Per fare un paragone, vi sono proposizioni semplici che sono atomi che, unendosi, formano proposizioni complesse, ovvero molecolari. Nasce così la logicità del mondo, che non è logico in sé: il mondo diventa logico in quanto è possibile descriverlo tramite proposizioni. Noi facciamo immagine della realtà, come detto, tramite il linguaggio e il pensiero.

Sorge qui un interrogativo: come posso io decidere se un’immagine è vera o falsa? Qui Wittgenstein si rifà ad Aristotele e afferma la corrispondenza del mondo reale con il linguaggio: significa che una proposizione una volta formulata deve, come si suol dire, affrontare il valico della prova empirica.

Fino a qui Wittgenstein sembra aver delineato i tratti della scienza: ossia il descrivere la realtà in maniera oggettiva e logica, sulla scia di Auguste Comte e del suo “come” e non “perché”. E quello che uno potrebbe chiedersi, dopo aver letto che «la filosofia non è una delle scienze naturali» è: «Allora la filosofia a che serve?». Rimangono stupefatti anche gli studenti e Russell, nella scena del film biografico omonimo di Derek Jarman. I problemi filosofici, infatti, non possono essere verificati (qui Wittgenstein anticipa il circolo viennese con il suo principio di verificabilità) quindi, no, non sono problemi. Il compito della filosofia è di chiarificare le proposizioni. Tutto qui. Diventa non più una dottrina, bensì un’attività.

In definitiva, i limiti della logica non sono altro che i limiti del mondo perché, se il mondo è definibile e caratterizzato da questa, allora questa ne delimita i confini. Certo, noi possiamo fare ipotesi («Il sole sorgerà domani»), consapevoli del fatto che rimangano nel campo del probabile. Nella conclusione del Tractatus, Wittgenstein chiarisce che «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Questa ultima frase, suona in maniera etica, come un consiglio, o un imperativo, sul modo in cui occorre procedere.

Dopo qualche anno, Wittgenstein capirà che non tutti i problemi sono stati esauriti nel Tractatus, anzi, tornerà sulla questione del linguaggio, ma non quello delle leggi naturali, quello quotidiano, e influenzerà stavolta i post-strutturalisti.

Non si può negare, tuttavia, l’incredibile importanza del pensiero di Wittgenstein in più campi: sia in filosofia con il Circolo di Vienna, ma anche in teoria dell’informazione e psicologia. Non ci resta che ringraziare Russell per aver spinto quello che definiva un genio a pubblicare questo libro.

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