Quentin Tarantino è una comfort zone cinematografica, e per i cinefili accaniti è una sicurezza in cui crogiolarsi nel marasma di produzioni scadenti e di bassa lega. Uscito nelle sale italiane il 18 settembre (a circa un mese di distanza dalle release internazionali), il suo nuovo C’era una volta a… Hollywood ha già sbancato il botteghino, incassando solo nel primo giorno d’uscita 855.045 euro per 120.608 spettatori. Nelle sale il pubblico è variegato, non targhettizzato come spesso avviene per altre produzioni (scene così si vedono solo per i grandi cult). Il motivo è semplice: è Quentin Tarantino, e tra massacri e scene splatter si snoda una trama estremamente ben costruita, ricca di dettagli, prodezze di fotografia, e accenni ai fetish del regista tra cui gli immancabili zoom sui piedi. In questo film, il nono e forse penultimo di Tarantino, non c’è però il regista che siamo abituati a conoscere.
«C’era una volta a… Hollywood», la trama dell’ultimo film di Tarantino
Partiamo per gradi. Il film ha al timone l’incredibile duo DiCaprio/Pitt, una combo eccezionale che mixa due dei talenti più grandi del cinema contemporaneo, talmente ben riuscita da farci chiedere perché nessuno abbia pensato prima a metterli insieme. Nei ruoli dell’attore Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e della sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt) i due attori si muovono nella Hollywood del 1969, in un’America appena uscita dalla mitica Summer of Love, brodo primordiale da cui è spuntata la generazione hippie degli anni Settanta. Alle prese con una carriera tentennante fatta di programmi televisivi Western e film in cui è rilegato al ruolo di “cattivo”, Rick Dalton scopre con stupore che accanto alla sua residenza di Cielo Dr. si è appena trasferito il regista più ricercato del momento: Roman Polanski, mente dietro Rosemary’s baby, insieme alla moglie, l’attrice emergente Sharon Tate (un’eterea Margot Robbie). Apparentemente, lo spettatore attento si chiede come le due cose possano avere un qualunque legame fra loro: cos’hanno in comune la carriera decadente di un attore e uno degli avvenimenti noir più famosi e raccapriccianti della storia americana? La risposta? Apparentemente nulla. Rick, Roman e Sharon non sembrano condividere nulla tranne l’indirizzo di residenza, e questo contribuisce a creare una deliziosa suspense nel pubblico. Si sa che Tarantino non lascia mai nulla di irrisolto, per cui la verità verrà fuori.
Una dichiarazione d’amore
Nel percorso che porta verso lo svelarsi del mistero, c’è una lunga, lunghissima (circa 2h e 40m) dichiarazione d’amore di Tarantino per la vecchia Hollywood e il cinema anni Sessanta, con un’infinita carrellata di riferimenti ai grandi miti che hanno ispirato la sua arte. Primeggia sicuramente il Western, di cui Tarantino si è sempre proclamato grande amatore: la riproduzione dei set è perfetta, con porte di saloon, strade polverose, costumi e trucco d’epoca, tanto da far perdere la cognizione del tempo e aspettarsi di vedere John Wayne sbucare fuori da qualche parte. Immancabile il riferimento agli Spaghetti Western, all’epoca considerati produzioni di bassa lega ma in cui Tarantino ha trovato il perfetto mix fra l’eccesso scenografico americano e la sboccata emotività italiana. C’è Bruce Lee, interpretato da Mike Moh, che compare in sporadici camei nelle vesti di una Diva hollywoodiana imbevuta di autocompiacimento, e c’è anche Steve McQueen, interpretato da Daniel Lewis, che partecipa a festini alla Playboy Mansion insieme a mezza Los Angeles. Ma non è finita qui: ci sono poster originali ovunque, da Lady in Cement a Pretty Poison fino a Friedkin’s The Night They Raided Minsky, con altri totalmente immaginari come Jigsaw Jane, appeso in casa di Rick Dalton, che contribuiscono a rendere il tutto ancora più reale. Ci sono le insegne luminose, le macchine d’epoca: nel film non c’è un’atmosfera vintage, ma ci sono gli anni Sessanta allo stato puro.
Il momento topico
Dopo due ore, si arriva al momento saliente: l’omicidio di Sharon Tate nella sua casa di Cielo Dr. per opera di tre membri della Manson Family. Il ritmo prima dell’evento è incalzante, con una voce narrante in sottofondo che indica di ora in ora cosa fanno i protagonisti il 9 agosto 1969. Si fa notte: i giovani esagitati della Manson Family, comunità hippie nonché criminale fondata da Charles Manson, si avviano verso Cielo Dr., pronti a eseguire la volontà del loro maestro e uccidere i ‘porci’ hollywoodiani che insegnano la morte sullo schermo. L’occhio attento non si sarà fatto sfuggire due dettagli: il primo è un riferimento all’infantilismo e alla ridicolaggine dei serial killer condensata nell’agitazione eccitata di Charles ‘Tex’ Watson, uno degli assassini, che dopo aver incontrato Rick Dalton si ricorda del suo portapranzo a scuola con l’immagine dell’attore nella serie cowboy Bounty Law; il secondo è la comparsa sullo schermo di Maya Hawke, figlia di Uma Thurman, da sempre musa del regista, che appare in un brevissimo cameo, come a testimoniare la presenza costante e imprescindibile della madre nell’arte di Tarantino.
Ci siamo, il momento è alle porte, o meglio, alle porte di casa di Rick Dalton. In un colpo di scena che il pubblico aspettava fin dall’arrivo in sala, arriva il caro vecchio Tarantino tutto sangue e ammazzamenti e vediamo Brad Pitt iniziare a maciullare la testa di una dei killer contro ogni superficie della casa, il suo cane sbranare vivo Charles Watson, e Leonardo DiCaprio incenerire con un lanciafiamme l’ultima superstite del ridicolo trio. Come già avvenuto per Bastardi Senza Gloria, Tarantino usa il potere dell’arte e del cinema per cambiare la storia. L’omicidio efferato di Sharon Tate, incinta di otto mesi, ha segnato la fine del sogno hollywoodiano originale, facendo capire al mondo che quelle stelle, considerate intoccabili nel loro firmamento di perfezione, possono essere massacrate con ben 16 coltellate. Tarantino non lo accetta. Non accetta che un mondo meraviglioso sia stato distrutto da un gruppo di hippie esagitati, completamente sballati da acido e droghe varie, invasati dalle parole di un pazzo, così come non gli stava bene che uomini altrettanto invasati avessero piegato il mondo sotto la piaga del nazismo. Perché dunque non cambiare la storia, anche solo per due ore, e regalarci l’illusione che una macchina da presa possa restituire vita e giustizia al passato?
«C’era una volta a… Hollywood» di Tarantino è un inno al cinema
C’era una volta a… Hollywood è un inno al cinema, al suo potere immaginifico di cambiare la realtà e plasmarla a suo piacere, è una dichiarazione d’amore a Sharon Tate, all’evanescenza bionda che incarnava lo spirito di Hollywood, è la testimonianza che tutto vale nel cinema. Non è però una cosa. Non è il solito Tarantino… e va bene così.
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